Ci siamo quasi. Annunciata fra le serie più attese, la quarta stagione di “Boris” andrà in onda dal 26 ottobre sulla piattaforma streaming Disney+ e si prevede un boom di nuovi abbonati per il ritorno della sgangherata troupe sul set di una fantomatica fiction spazzatura. Solo che ormai è cambiato tutto: dettano legge non le reti ma le piattaforme globali, e gli algoritmi. Così il regista Renè (Francesco Pannofino) e i suoi devono far approvare la loro «Vita di Gesù», da un’idea di Stanis La Rochelle (Pietro Sermonti), che ovviamente è protagonista, oltre che produttore, con la sua casa di produzione fondata con Corinna (Carolina Crescentini), detta dal regista «la cagna maledetta», che ora è sua moglie. Coproduttore è Lopez, con la sua QQQ (Qualità, Qualità, Qualità). Tre stagioni di successo (2007, 2008, 2010) e la sigla di Elio e le storie tese, lanciando tormentoni esplosi in piena pandemia, entusiasmando un pubblico nuovo che ha spinto alla produzione di una nuova stagione. Mancherà Mattia Torre – uno dei tre geniali sceneggiatori, prematuramente scomparso – ma in questa ampia intervista tocca all’attore messinese Ninni Bruschetta alzare la posta, ripartendo dal suo mitico personaggio, il direttore della fotografia Duccio Patanè, indolente, «pippatore» indomito, celebre per «smarmellare tutto». Occasione propizia anche per parlare del teatro, il grande amore di Bruschetta – già direttore artistico del Teatro Vittorio Emanuele – che rilancia alla Gazzetta: «In città abbiamo un patrimonio artistico spaventoso, il teatro ha cinquanta dipendenti e deve produrre 5-10 spettacoli l’anno». Bruschetta, ci siamo quasi. Che atmosfera si respirava sul set di Boris 4? «La presenza di Mattia Torre c’è sempre, si respirava sul set di Boris 4, grazie al grande lavoro di scrittura di Giacomo Ciarrapico e Luca Vendruscolo. Ma è bello poter dire che umanamente tutti noi del cast non ci siamo mai persi nell’arco di questi dieci anni». Perché durante la pandemia è esplosa la #BorisFever? «Tutti quanti eravamo costretti a restare in casa e l’utenza delle piattaforme streaming è cresciuta esponenzialmente. Boris piace perché è un prodotto di grande qualità, con una marcia in più dovuta al passaparola inarrestabile sui social». Come nacque il personaggio di Duccio? «L’ho raccontato nel mio libro, “Manuale di sopravvivenza dell’attore non protagonista” (Fazi, 2016). Ero andato a fare un provino per il ruolo di Renè, per un episodio pilota. Quel giorno avevo un terribile mal di denti e Luca mi propose anche il ruolo di Duccio, il direttore della fotografia. Immaginatevi, mi sono messo in un angolino per studiare un nuovo copione, una nuova parte da imparare a memoria e recitare. Ma il copione era talmente bello che l’ho fatto immediatamente mio e ho scelto di recitare un cocainomane in down, e da allora Duccio è rimasto così». Avrebbe potuto essere Renè? «Anni dopo gli sceneggiatori mi dissero che non fu una scelta facile ma sono convinto che l’interprete perfetto sia Francesco Pannofino». Boris è una metafora dell’Italia? «Assolutamente. Boris è un film su Roma, sul mondo del cinema e i meccanismi che girano intorno alla Capitale, una città fatta di ministeri e burocrazia. Il set televisivo di Boris, il racconto della sua inefficienza, riflette l’essenza cruda del nostro Paese». Sa che nel nostro Paese è vietato chiamare i figli Adolf Hitler, Hannibal Lecter, Erin Brockovich e Stanis Larochelle? «Mi sembra straordinario! Mi fa pensare a Biascica che aveva chiamato il proprio figlio Francescototti Biascica, tutto attaccato», ride. Chi vince fra teatro, cinema e tv? «Non c’è partita, perché il teatro è la madre di tutte queste arti. Il teatro è un rito, ha una dimensione spirituale che ti migliora e ti spinge, una sera dopo l’altra, a dare sempre il massimo perché la gente davanti a te condivide l’esperienza irripetibile dal vivo. Il teatro ci educa ad essere forti e concentrati». Perché in tv si fanno tante cose brutte? «Perché si sono sempre fatte. E ogni tanto si realizza una cosa bella». A sessant’anni qual è il tuo sogno nel cassetto? «I sogni dei miei figli». Due settimane fa ha alzato la voce sullo status quo del Vittorio Emanuele. A che punto siamo? «Ho sentito il sovrintendente Gianfranco Scoglio, attendo riscontri. Mi auguro che si voglia uscire dalle consuete e assurde dinamiche, affidando subito la preparazione della nuova stagione ai direttori artistici che debbono essere pagati, per la loro professionalità. Diversamente, significa disprezzare il teatro». Come giudica le ultime stagioni del Vittorio? «Negli ultimi sei anni non ha funzionato, lo considero moralmente chiuso». Da quando è andato via lei? «Proprio così, perdendo qualsiasi rilevanza nazionale. Ma le garantisco che i messinesi hanno fame di teatro. Chi non ha competenza finisce per scegliere solo spettacoli di giro, costosi e dai risultati scadenti». Cosa propone? «Mi auguro che il sindaco, l’assessore Massimo Finocchiaro, che ha le deleghe a enti teatrali e spettacoli, e l’assessore alla cultura, Enzo Caruso, intervengano per salvare il teatro, dialogando con tutti noi, professionisti che conoscono questo mondo da quarant’anni, senza tema di smentita».