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"Mercoledì" Addams, il male normale e la tristezza come unica gioia possibile

Due schiocchi di dita per cogliere l'anima di «Mercoledì». L'elogio del male lucido, elegante, brillante. L'intelligenza sfacciata del male. Il male normale. Esplicito, sdoganato, ridicolizzato, a tratti esagerato. L'eccellenza, l'eccedenza del male. Biforcuta e affilata.

Solo che il male non era lì dove lo si immaginava. Aveva la faccia buona, era il rassicurante figlio della legge. Stava lì, ma era nascosto, vigliacco, trasfigurato, riposizionato. Il male ribaltato nel suo stesso piano, annidato nel sottosopra (sì, in quelle lotte soprannaturali il riferimento a Stranger Things si percepisce tutto), pronto ad emergere col suo carico di rabbia, di vendetta, di morte. Liberatorio.

E sì, quella di "Mercoledì" è una storia "vera" qualsiasi. Di una ragazzina gotica e romantica, che lancia le trecce verso altezze non convenzionali eppure oneste. Del diverso tra i diversi, del reietto tra i reietti (come Rowen, il protagonista assente che con la sua fine segna l'inizio; o come Eugene, coraggioso nel suo spazio chiuso di arnie, operoso nel suo mondo perfetto di api. Come la sirena Bianca, come tutti).

Del passato che si ripercuote e si compie. Di una stanza divisa tra colori e oscurità, di un luogo condiviso nella propria intrinseca separazione. Di una famiglia misteriosa, degli Addams prima degli Addams, di Morticia e Gomez che covano un segreto e di un segreto da svelare per risolvere il mistero. Di una Mano che sente, che è occhi e parole, braccio armato di mente. Dell'amicizia, di un disagio, dell'abbraccio inevitabile, della paradossale ricerca di una tristezza come unica gioia possibile. Di una danza virale (sulle note di «Goo Goo Muck» dei The Cramps o nella versione di Lady Gaga), robotica e sinuosa, con lo sguardo fisso e il movimento sensuale. Di un violoncello nero che risuona («Paint It Black» dei Rolling Stones e «Nothing Else Matters» dei Metallica, l’ «Inverno» di Vivaldi). Di una scuola che insegna ciò che ha imparato. Di una Jericho (forse la città più antica del mondo, la casa di Zaccheo e del sicomoro), che è il contraltare di divinità, il simbolo di religione.

«Mercoledì» non è tanto trama quanto più contesto. Non c'è niente di originale nella contrapposizione, nella competizione tra male e normale. In fondo (ma anche durante) appare perfino condivisibile quel linguaggio esplicito. E non c'è scandalo, quelle che Tim Burton mette in bocca alla giovane Ortega sono parole che potrebbero stare nella testa di tutti. Condivise, ammirate, invidiate. Umorismo sadico e sarcastico, iconico. Negli scambi coi normali c'è la sensazione che lì, nel male normale, ci sia il meglio dell'umanità, di quella considerata disumana. Una stagione è conclusa e un'altra sta per cominciare. Nevermore. Neverend.

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