Nuova possibilità di cura per la demenza prefrontale. Uno studio italiano, presentato ad Oslo al Congresso dell’European Accademy of Neurology, rivela la possibilità di rallentare la progressione della malattia migliorando alcune funzioni cognitive e comportamentali dei pazienti.
Si tratta di una patologia neurodegenerativa che colpisce molte persone ma che al momento resta ancora senza cura. «La patologia ha caratteristiche diverse dalla malattia di Alzheimer nonostante spesso vengono confuse con la conseguenza di diagnosi tardive e trattamenti non idonei - spiega Giacomo Koch, neurologo e direttore del Laboratorio di Neuropsicofisiologia sperimentale della Fondazione Santa Lucia - A differenza dell’Alzheimer la demenza frontotemporale colpisce in maniera selettiva alcune parti del cervello, prevalentemente lobo frontale e temporale, e dal punto di vista clinico i sintomi non interessano la memoria ma il comportamento: i malati cambiano personalità, diventano disinibiti, apatici o irritabili. In alcuni casi presentano deficit del linguaggio molto spiccati, forme di afasia progressiva con perdita della capacità di parlare e, in altri, anche un deficit intellettivo, la demenza semantica che comporta un’erosione di tutte le conoscenze acquisite nel corso della vita».
Recenti evidenze scientifiche mostrano come anche nel caso della demenza frontotemporale la neuroinfiammazione sia coinvolta nel processo neurodegenerativo sin dalle prime fasi della malattia. «Sta emergendo in maniera sempre più chiara come le cellule non neuronali, in particolare microglia ed astrociti dalle quali dipende la neuroinfiammazione, precedono e accompagnano la neurodegenerazione - spiega Koch - Recenti studi dimostrano il coinvolgimento della neuroinfiammazione non solo a malattie come Alzheimer o Parkinson ma anche alla demenza frontotemporale. E’ una strada nuova che stiamo percorrendo per determinare attraverso l’uso di farmaci il controllo della neuroinfiammazione e in definitiva della patologia».
Da uno studio condotto dalla Fondazione Santa Lucia arrivano risultati incoraggianti. «Abbiamo eseguito uno studio per indagare la potenziale efficacia e la sicurezza di PeaLut (palmitoiletanolamide co-ultramicronizzata con Luteolina) in un campione di quindici pazienti con nuova diagnosi di demenza frontotemporale. Lo studio, presentato ad Oslo - aggiunge Koch - ha mostrato che dopo un mese di trattamento i pazienti riportavano un miglioramento di circa il 15% in una batteria di test che misurava le funzioni cognitive del lobo frontale ed una riduzione del 20% dei disturbi comportamentali. I pazienti sono apparsi meno agitati, più tranquilli, parlano e ragionano meglio. Inoltre sono emersi evidenti cambiamenti dell’attività cerebrale, con un aumento della plasticità cerebrale e un ripristino dei meccanismi di inibizione: controllando la neuroinfiammazione gli endocannabinoidi hanno ripristinato anche l’attività sinaptica».
Lo studio ha dimostrato come PeaLut sia in grado di controllare il meccanismo neurodegenerativo prevenendo il danno neuronale e potenzialmente ritardando la progressione della patologia. «Sulla base di questo studio e per confermare il dato - spiega ancora il ricercatore - abbiamo avviato un trial clinico randomizzato in doppio cieco per avere una casistica più ampia e con un gruppo di controllo».
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