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Epatite B, vaccini e contagio: individuato il freno a mano del virus

Facilmente trasmissibile ma prevenibile grazie al vaccino, asintomatico per decenni eppure potenzialmente letale, ben conosciuto e altrettanto poco compreso: è il virus dell’epatite B.

Una ricerca italiana, coordinata da Matteo Iannacone, capo unità del laboratorio di dinamica delle risposte immunitarie presso il San Raffaele di Milano, e pubblicata su Nature, svela alcuni meccanismi della risposta immunitaria inefficace nella forma cronica della malattia e dimostra, in un modello sperimentale, la potenziale efficacia di una molecola nel riattivarla. Infatti, il contagio del virus può dare origine sia alla forma acuta della malattia, che in genere si risolve in breve tempo, sia alla forma cronica, per cui non esiste alcuna cura ma solo delle terapie di contenimento.

Secondo le più recenti stime dell’Organizzazione mondiale della sanità, l’epatite B cronica colpisce circa 257 milioni di persone nel mondo, cioè sette volte tanto quelle infettate dall’Hiv. “Quella dell’epatite B è un’epidemia silenziosa: il virus continua a riprodursi nelle cellule del fegato anche per decenni senza sintomi specifici, favorendo lo sviluppo di cirrosi o tumore” spiega Iannacone. Con la scoperta del vaccino, obbligatorio in Italia dal 1991, questa malattia è diventata ormai rara nei paesi occidentali ma rimane un flagello per buona parte dell’Africa e dell’Asia orientale. La trasmissione avviene per lo più da madre a figlio oppure, in età adulta, attraverso i rapporti sessuali.

Tuttavia, a differenza di quanto accade nell’adulto, oltre il 90% dei bambini che vengono contagiati alla nascita svilupperanno la forma cronica. “Non sappiamo ancora perché il sistema immunitario in alcuni casi si inceppi. Da ricerche precedenti abbiamo però capito che dipende dalla disfunzione di un sottogruppo di globuli bianchi chiamati linfociti T” continua il ricercatore. Combinando tecniche genomiche con un particolare tipo di microscopia, che permette di osservare dal vivo il comportamento delle cellule, i ricercatori del San Raffaele hanno scoperto che la scarsa capacità di reazione dei linfociti al virus dell’Epatite B è dovuta a meccanismi diversi da quelli già osservati contro altri virus o cellule tumorali. “Ciò significa che i farmaci utilizzati per riattivare il sistema immunitario, già somministrati nel trattamento di alcuni tipi di tumore, potrebbero non funzionare per l’Epatite B cronica” chiarisce Iannacone.

Tuttavia, non tutto il male viene per nuocere: la caratterizzazione di questi linfociti T disfunzionali ha permesso di indentificare alcune molecole in grado di risvegliarli. Di queste, una è già stata testata con successo in vitro. “L’interleuchina 2, prodotta normalmente durante altri tipi di infezioni, è stata in grado di togliere il freno che impediva ai linfociti T di aggredire le cellule infettate dal virus. La speranza è che essa sia solo la prima di una lunga lista di candidate”, aggiunge il ricercatore.

Nel loro insieme, la combinazione di queste tecnologie sperimentali in grado di individuare potenziali molecole bersaglio e quindi simularne l’efficacia, modellando nel topo quanto succede nell’essere umano, permetterà di accelerare vertiginosamente questa caccia al tesoro. “Nonché di testare combinazioni con gli antivirali di ultima generazione che stiamo indipendentemente contribuendo a sviluppare. Certo, è ancora presto per cantare vittoria, però finalmente abbiamo dato un nome e un cognome al malfunzionamento che sta alla base dell’epatite B cronica. Su queste basi, lo sviluppo di una terapia specifica potrebbe non essere più un’utopia” conclude Iannacone, incrociando le dita: ora che è stato individuato il freno a mano, non resta che capire come sbloccarlo.

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