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“Merito” ed “eccellenza” etichette retoriche o strumenti di equità?

Che bel concetto che è, il merito. Di solito lo si accoppia alla parola «eccellenza», e assieme diventano il lasciapassare perfetto, il greenpass lessicale che giustifica qualsiasi scelta. Chi mai potrebbe dubitare, se qualcuno è stato selezionato per i suoi meriti, e messo a produrre eccellenza? Né per appartenenze familiari o sociali, né per censo, né per conoscenze o scorciatoie: puro merito. E ci sono intere forze politiche e importanti istituzioni che fondano tutta la loro narrazione su eccellenza e merito.
Peccato che così avulsi e senza declinazione, privi di qualsiasi riferimento a contesti e storie, merito ed eccellenza divengano etichette buone per ogni barattolo, zeppe retoriche che gonfiano e abbelliscono i discorsi, e, più sottilmente e subdolamente, finiscono per avallare sistemi perversi in cui merito ed eccellenza non sono garanzia di eguaglianza e giustizia, oltre che di inclusione e gestione corretta delle risorse, ma diventano il loro preciso opposto.
Lo hanno detto con semplicità tre giovani studiose, e l'hanno fatto nell'unico modo e momento possibile perché questo semplice discorso acquistasse un'irresistibile carica di significato e denuncia, nell'epicentro della narrazione “merito-eccellenza”, in un luogo il cui statuto etico è fondato su questo binomio: la Scuola Normale Superiore di Pisa.
Virginia Magnaghi, Valeria Spacciante e Virginia Grossi hanno diviso in tre parti uguali il loro fermo, nitido discorso, per il quale c'è voluto un grande coraggio: hanno guardato negli occhi l'istituzione che aveva appena dato loro la patente di “eccellenti” per puro “merito” e, pur riconoscendo ed esprimendo gratitudine per la qualità della formazione ricevuta, ne hanno denunciato la logica di fondo, la retorica dell'eccellenza e della meritocrazia fondata sul modello neoliberale della produttività, della competitività sfrenata e dell'individualismo che essa sottende (anche per questo hanno scelto un discorso diviso in tre, anzi moltiplicato per tre, dal momento che la logica dello scambio e del lavoro di gruppo è uno dei più potenti antidoti a questo sistema).
Cosa ce ne facciamo – ci hanno detto con le giovani voci un poco tremanti, consapevoli di fare un gesto che non sarà privo di conseguenze – di un'eccellenza fondata sull'esclusione, sul profitto come unico discrimine, sul modello di pochi “eccellenti” che regnano su un mondo di precari, di studenti che non possono accedere a borse di studio, su ricercatori senza assegno di ricerca, su strettoie e carriere sbarrate, soprattutto se sei povero, se sei meridionale, se sei donna?
A che serve un sistema fondato su centri d'eccellenza che hanno tutto, e il resto si arrangi (che poi è quello che abbiamo visto con nettezza in questa pandemia: cosa ce ne facciamo di una sanità che fa faville sulle grandi eccellenze e non ha investito nulla sulla medicina del territorio, perché non è remunerativa, non consente carriere sfolgoranti, incassi e allori?).
La vogliamo davvero un' “eccellenza” che replica se stessa e perde per strada pezzi di Paese, di umanità, di senso della comunità? Un'eccellenza che ha comunque bisogno di tutta una rete di professionalità “dal basso” che, invece, sono sempre più precarizzate: il lavoro di seconda terza e quarta mano, il lavoro senza tutele, senza futuro (e le tre neodiplomate hanno voluto ringraziare, in apertura del discorso, accanto al corpo docente, tutti i lavoratori coinvolti nel loro percorso, dai bibliotecari agli addetti alle pulizie: livelli “non eccellenti” la cui precarizzazione, esternalizzazione, mortificazione sempre più massiccia non “merita”, e non interessa a nessuno).
Che bello, essere eccellenti. Viene da pensare che servirebbe a migliorare il mondo, e non a replicarlo nelle sue cose peggiori. Questo dicono le tre eccellenti, e possono dirlo proprio perché ce l'hanno fatta, sono entrate nel gioco, sono premiate dal sistema. E sì, gliela riconosciamo davvero, un'eccellenza, ma assai diversa dalla formuletta retorica: l'eccellenza – e qui ci viene in mente il prete di Barbiana, l'indimenticato don Lorenzo Milani – che non vuole altro merito se non quello di servire tutti gli altri, quelli che non saranno mai presi in considerazione per merito o eccellenza. L'eccellenza che vuole vivere nel mondo di tutti, e non solo degli eccellenti, senza merito.

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