Caro Lucio, oggi ti scrivo. Brutto giorno quello di dieci anni fa, quando all'improvviso te ne sei andato a prenderti il cielo con le mani.
Ti sapevamo a suonare a Montreux e nella mente ancora c'era l'esibizione al festival di Sanremo, quarant'anni dopo quel 4.3.1943 che ti ha spaccato la carriera.
Il motivo di Nanì nascosto dietro ad un uomo sul podio, lì per accompagnare a bacchetta un ragazzo come lo eri stato tu, dal successo lento come era stato il tuo.
Era l'1 marzo.
Poi gli anni sono passati tutti quanti insieme ("sono pochi gli anni... non ce n'è uno che ritorni") ed i tuoi occhi ormai non vedono più. Non vedono Bologna, la piazza grande nel quale sei stato il lupo a cui non stare attenti, il capobranco di un'opera buffa nella sua assoluta solennità, il gatto senza padrone. Però la tua torre è rimasta, alta sulla tua città. Quella da cui il tuo grande amico Pupi Avati avrebbe voluto buttarti giù, preso dall'invidia per quel giovanotto che col suo clarinetto, negli anni '50, senza nemmeno conoscere l'alfabeto della musica (non sui libri almeno, perché fuori dall'accademia tu sei stato dotto più di molti), gli aveva fatto cambiare strada, gli aveva mostrato la misura del talento smisurato, gli aveva fatto appendere le ance ance al chiodo.
Chissà in quale casa in riva al mare sei andato a sognare la libertà.
Com'è profondo il mare che luccica, Lucio. Lo guardavi sempre nelle notti di Castel di Tusa, sere di miracoli con la luna a fior di pelle, di acciughe salate per tenere limpida la gola e fiumare d'arte a perdita d'occhio. Guardavi il futuro come un angelo ballerino, un caruso che si sporcava le mani di jazz, con la voce lungimirante e il materasso di parole di uno che "parlava un'altra lingua però sapeva amare". Lì stava tutta la tua impresa eccezionale, lì, nell'essere normale.
Da quando sei partito, sono assai e nessuna le novità. C'è che quell'anno che verrà ancora non è arrivato. Ogni Cristo è ancora sulla croce e non è mai Natale. Neanche gli uccelli hanno fatto ritorno. Manca sempre quel tempo nuovo, di trasformazione, quel momento che tutti quanti stiamo già aspettando, che più ci penso e più non so aspettare.
Tu se potessi lo ripeteresti: "Adesso basta sangue, ma non vedi? Non stiamo nemmeno più in piedi, un po' di pietà. Invece tu fumi con grande tranquillità. Domani domani domani chi lo sa che domani..."
Eh. Chi lo sa se domani finirà la pena, se la vita si liberà dalla sua stessa catena.
La vita che finisce? Tu non ci hai pensato poi tanto. In fondo... "la morte è solo l'inizio del secondo tempo".
Sul citofono di casa tua a Bologna, quella che adesso è il museo della tua fondazione, ancora c'è scritto Comm. Domenico Sputo.
"Vedi caro amico cosa si deve inventare, per poter riderci sopra e continuare a sperare"?
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