Hervè Renard, in sella all'Arabia Saudita, ha preso al volo una delle copertine più belle e suggestive dei Mondiali in Qatar. Con quel discorso in stile Al Pacino che nel giro di un'oretta ha ribaltato lo stato d'animo dei suoi giocatori e dell'Argentina ha penetrato i cuori degli appassionati di calcio. Per scoprire meglio di chi stiamo parlando, bisogna fare qualche passo indietro. Ventinove, per la precisione. Come gli anni che ci riportano in una camera d'hotel di Eindovhen, in Olanda, dove Kalusha Bwalya, capitano dello Zambia in corsa per le qualificazioni a Usa '94, mostra l'impazienza di chi attende qualcuno. Scruta il cielo e pensa che tra poco sarà in viaggio per raggiungere i compagni che lo aspettano in Senegal. C'è una gara decisiva da giocare. Bussano allo porta. Neanche il tempo di aprire che un dirigente della Nazionale gli getta le braccia intorno al collo. “Sono morti. Sono morti tutti”. Diciotto giocatori, trenta in tutto (tra staff tecnico ed equipaggio): il velivolo dell'aeronautica militare zambiana si è inabissato nell'oceano Atlantico, in Gabon. Lo Zambia non c'è più. Diciannove anni dopo, nel 2012, sulla panchina della Nazionale faticosamente ricostruita siede un tecnico francese non molto conosciuto. Alle spalle una magrissimo bottino da calciatore (una sola apparizione in League 1, con il Cannes di Zizou Zidane) e una fugace avventura da viceallenatore del Drauguignan, con in mezzo l'inaugurazione di una ditta di pulizie. Nulla più. Ma adesso è lì, a un passo dal capolavoro. Il suo Zambia si gioca la Coppa d'Africa contro i campioni della Costa d'Avorio: Drogba, Kalou, i fratelli Tourè. Dove? In Gabon, più precisamente a Libreville, ad un chilometro di distanza dal luogo del disastro aereo. Si va ai calci di rigore. Ce ne vogliono 18 per scrivere la storia. Dello Zambia e del calcio africano. Già, 18. Come gli sfortunati componenti della squadra africana diretti in Senegal nel '93, in attesa che capitan Kalusha Bwalya li raggiungesse.