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Dietro la fiction della Rai, ecco tutta la realtà dei figli di ‘ndrangheta diventati “Liberi di scegliere”

Il tv movie “Liberi di scegliere” in onda in prima serata su Rai Uno il prossimo 22 gennaio racconta il primo caso di "allontanamento" di un minore da una famiglia di 'ndrangheta, che è sintesi dei tanti che si sono succeduti nella realtà. Una realtà fatta di decine di bambini cresciuti a pane e mafia.

Luigi (solo il nome è di fantasia) aveva 9 anni quando il padre lo portava sulla spiaggia per farlo esercitare a sparare, aveva solo 9 anni quando andava ai summit di ‘ndrangheta, assisteva all’arrivo di ingenti carichi di droga e gli veniva raccomandato «Tu devi imparare a tagliare la polvere». Per salvare Luigi da un futuro già scritto è partita dallo Stretto una battaglia che cammina sulle orme di giudici che hanno sacrificato la loro vita contro le mafie.

“Vorrei che quel bambino vivesse da cittadino libero in un mondo migliore”.

“Se la gioventù le negherà il consenso anche l’onnipotente e misteriosa mafia svanirà come un incubo”.

Sono frasi di Rocco Chinnici e Paolo Borsellino, idee che hanno trovato concretezza nel coraggio illuminato di un magistrato messinese, Roberto Di Bella, presidente del Tribunale per i Minorenni di Reggio Calabria, che forte di un’esperienza ultraventennale, ha tracciato una strada per cercare di spezzare quel lascito mafioso che si tramanda di padre in figlio soprattutto in Calabria, allontanando i ragazzi da famiglie che li educano al crimine organizzato o semplicemente alla cultura mafiosa.

Il racconto del primo provvedimento di "allontanamento" farà tappa sul piccolo schermo, ma dietro la fiction ospitata dalla Rai c'è una realtà fatta di oltre un centinaio di ragazzi che il magistrato messinese ha processato per reati gravissimi che vanno dall’associazione mafiosa all’omicidio, minori che spesso portavano uno dei 144 cognomi della “Santa” e che sono finiti alla sbarra per anche per estorsioni, rapine, armi, droga o per aver coperto e agevolato latitanze di boss in Aspromonte. Un trend che Di Bella ha provato ad invertire. Dopo sei anni dall’adozione del primo provvedimento su richiesta della Procura della Repubblica dei Minorenni, sono stati circa 60 i ragazzi inseriti in un programma di recupero, una quarantina quelli trasferiti temporaneamente in altre regioni tra cui Sicilia, Lombardia, Veneto, Emilia, Piemonte e Sardegna. Irrisorio il numero di recidivi, mentre più della metà, non appena tornati a casa, hanno chiesto di essere nuovamente trasferiti in un altro luogo.

E il resto?

«Quelli che rimangono in Calabria – racconta il presidente Di Bella – ci chiedono di essere aiutati a trovare un lavoro o a iscriversi all’università».

Gli ultimi “allontanamenti” sono stati siglati la scorsa settimana, ma cosa l'ha spinta a iniziare ad allontanarli?

«In questi anni – racconta il magistrato – ho conosciuto minori addestrati alle armi in tenera età, allevati ad usare la forza, la sopraffazione e la vendetta, ragazzi coinvolti nella scomparsa o nell’omicidio delle madri “colpevoli” di non essere rimaste fedeli a mariti al 41 bis».

E’ per questo che Di Bella ha deciso di interrompere una spirale che è culturale, ancor prima che criminale. Attualmente sono circa 15 i minori allontanati dalle famiglie d’origine, sono guidati alla scoperta della loro vera identità grazie all’opera incredibile degli Uffici del Servizio Sociale per i Minorenni di Messina e Reggio Calabria, di Don Ciotti ed Enza Rando, di tutti i volontari di Libera e dell’Unicef.

Questo film ricalca quasi fedelmente la realtà, una realtà che affonda le radici nella sua città d'origine...

«La prima “culla” è stata Messina – racconta Di Bella – l’Ussm ha permesso di consolidare una rete che si è andata via via espandendo. Ha reso tutto molto più semplice l’aver riavuto al mio fianco Maria Baronello o la direttrice dell’Ussm di Reggio Calabria Giuseppina Garreffa. Grazie a loro, ad operatori e psicologi, si è cercato di far scoprire ai ragazzi di mafia che esiste un mondo diverso dove la violenza – spiega Di Bella - non è lo strumento principe, dove i fidanzamenti o matrimoni non si impongono a sugello di sodalizi criminali e dove il carcere non è un attestato di professionalità».

Un ruolo cruciale e sempre più decisivo, nelle storie di minori “strappati” alle mafie lo hanno avuto le madri

«Superata una prima fase di contrapposizione aspra – spiega il presidente Di Bella -  prevale quasi sempre la speranza di sottrarre i figli a un destino che non hanno la forza di contrastare da sole».

Dopo i primi adottati dal Tribunale per i Minorenni di Reggio, gli "allontanamenti" sono stati applicati anche in altre città d’Italia, non solo a Catanzaro, ma anche a Napoli e Catania. E se in Calabria ci sono le ‘ndrine, in Sicilia l’albero genealogico della mafia si costruisce per paesi e quartieri?

«In qualunque posto se un genitore educa al crimine, sta andando contro la legge – conclude Di Bella - il problema è che manca una specifica copertura normativa, servono risorse per formare professionisti, operatori e famiglie affidatarie, serve anche dare lavoro a chi ha scelto di cambiare vita».

Serve fare sentire, ancora più forte, che lo Stato c’è.

 

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