Questo sito contribuisce all’audience di Quotidiano Nazionale

L'"autodistruzione"
di Philip Roth

di Davide Marchetta

E così Philip Roth ha deciso di farla finita. Con la scrittura, s’intende. Anche lui come tanti altri suoi celebrati colleghi. Ma non si pensi che la sua clamorosa scelta – «Scrivere ora mi è difficile. Nemesis sarà il mio ultimo libro» ha confidato venerdì scorso a una rivista francese – sia meno cruenta di un suicidio vero e proprio. Certo non s’è impiccato nel patio di casa come ha fatto David Foster Wallace nel 2008 a 46 anni; né ha preferito “scomparire” come il suo quasi coetaneo Thomas Pynchon – di cui non a caso, qualcuno ha perfino messo in dubbio l’esistenza – oppure come l’antesignano per eccellenza dell’autocancellazione: quel Salinger le cui opere si contano sulle dita di una mano e che ciò nonostante hanno fatto la storia della letteratura americana del Novecento.

No, Roth ha tenuto duro, ha resistito finché ha potuto – ha compiuto da poco 79 anni – continuando a sfornare un romanzo dopo l’altro – con un ritmo addirittura forsennato, nell’ultimo decennio – romanzi in cui non ha mai cessato di rivolgere uno sguardo impietoso, violentemente impietoso, verso se stesso: raccontandoci di un uomo sempre più vecchio che fatica sostanzialmente a reggere il peso dei propri fallimenti esistenziali.

Esistenziali e non certo letterari, perché Roth, a parte il Nobel – che ingiustamente anche quest’anno gli è stato negato – ha difatti ricevuto tutti i maggiori e più prestigiosi premi a cui uno scrittore potrebbe ambire: dal National Book Award al Pulitzer, dal Principe delle Asturie al Pen/Faulkner.
Il fatto è che scrivere per Roth non è mai stato un mero esercizio stilistico, ma un vero e proprio mettersi in gioco, in prima persona. Senza mai sconfinare nell’autobiografismo, o peggio ancora nell’esibizionismo.

I suoi numerosissimi alter ego – il più famoso dei quali è sicuramente David Zuckerman, l’ormai leggendario protagonista di nove suoi romanzi, da “Lo scrittore fantasma” del '79 a “Il fantasma esce di scena” del 2007 – gli hanno permesso di darsi addosso in maniera impietosa, mai di assolversi, di infliggersi una neppure tanto sottile forma di autopunizione che negli ultimissimi libri è diventata talmente insostenibile da “costringerlo” appunto a compiere il passo della rinuncia. 

In “Everyman”, ma anche in “Indignazione”, ne “L’umiliazione” e in “Nemesi”, la sua narrativa è diventata autodistruttiva, finanche in modo esagerato. Addirittura l’odio verso la propria stessa persona, che Roth ha “certificato” attraverso la lama arroventata delle sue storie, ha lasciato perplessi prima di tutto i lettori. Personalmente, il sentimento che ho provato leggendo i suoi ultimi romanzi è stato quello della pietà; finendo col ritrarmi davanti a tanto dolore. Implacabile dolore

Roth, in poche parole, ha voluto -  con la rinuncia a scrivere – smettere di vivere. S’è tolto la vita. In un senso molto meno metaforico di quel che si potrebbe pensare. Fino a tal punto il racconto della sua vita e la sua vita sono stati impossibili da disgiungere.

D’altra parte, ne “Il teatro di Sabbath” del 1995, il protagonista – quel Mickey Sabbath, artista dedito a frequentare prostitute e maschera da “vecchio porco”  a cui piace manipolare gli altri, soprattutto le donne – «considera la propria vita un fallimento e medita sul suicidio».  E due anni prima, in “Operazione Shylock: una confessione”, Roth aveva immaginato d’incontrare un altro Philip Roth, una sorta d’impostore che in Israele si fa passare per lui: una specie di desiderio estremo di sopraffarsi con un altro da sé.

Adesso ha soddisfatto la brama di mettere la parola fine al suo romanzo più importante, quello della sua vita. Letteraria... Abbandonato per sempre il tono satirico ed eroicomico – tagliente fino alla genialità – persa quella leggerezza che non solo la narrazione del sesso regalava alle sue pagine, rinunciando a collazionare sulla pagina le esibizioni scandalose delle proprie debolezze, la sua scrittura aveva perso il suo caratteristico prezioso respiro. Proprio quello che lo rese famoso nel remoto '69, col divertentissimo “Lamento di Portnoy”. E così Philip Roth ha scelto di sopraffare il proprio respiro. Quello letterario, s’intende.

Caricamento commenti

Commenta la notizia