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Lincoln il puro
e la Politica

di Anna Mallamo

 

LINCOLN di  Steven Spielberg, con Daniel Day-Lewis, Sally Field, David Strathairn, Joseph Gordon-Levitt, Tommy Lee Jones, James Spader, Hal Holbrook, John Hawkes, Jackie Earle Haley, Bruce McGill, Tim Blake Nelson, Joseph Cross, Jared Harris, Lee Pace, Peter McRobbie, Gulliver McGrath, Gloria Reuben, Jeremy Strong (Usa, 2012)

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No, il tizio che dice «Il nostro partito non ha mai sostenuto all’unanimità niente» non è Bersani. E quell’altro che domanda: «Loro si adoperano per comprare voti e noi speriamo nell’umore del Paese?» non è candidato premier di qualche lista “pulita”. E quello che precisa: «Non mi hanno mandato via. Ho acconsentito a dimettermi» non è Berlusconi. E, soprattutto, il tipo che dice «Alla Camera, quella banda di inetti bifolchi senza talento» non è un qualunque elettore, me e voi compresi.
Insomma, se andrete a vedere “Lincoln”, ultima, patriottica creatura di Steven Spielberg, rischierà di sembrarvi una cronaca parlamentare odierna, solo che i politici avranno la tuba, la parrucca e la cravatta a fiocco. E invece di votare per sancire che Ruby era nipote di Mubarack voteranno qualcosa di leggermente più storico (e anche più credibile): l’emendamento che, in via costituzionale, abolisce la schiavitù. Una cosa epocale, come la proclamazione della Repubblica, la guerra d’indipendenza o il primo passo sulla Luna.

Dev’essere tempo di regolamento di conti, negli Stati Uniti, se due dei più grandi registi contemporanei scelgono lo stesso periodo e lo stesso tema: Tarantino col suo “Django Unchained” e Spielberg col suo “Lincoln” ci parlano di schiavitù e di guerra civile. Due modi opposti, e per niente coincidenti, di raccontare un nodo e uno snodo fondamentali, forse un rovello, o una pietra miliare (che a volte è la stessa cosa: noi abbiamo avuto il Risorgimento, che ancora ci pungola e a volte ci ammonisce, a dimostrazione del fatto che siamo il nostro passato, e spesso non ne siamo all’altezza). Ma ciascuno lo fa a suo modo, perché il cinema è grande, l’uomo è un animale narrativo e il regista ancora di più. Ed è persino affascinante accostare due film talmente diversi per modalità, stile ed estetica, ma che ci fanno balenare lo stesso pensiero: l’America sorge su un campo di sangue. Che stavolta vediamo, fisicamente, passando, a cavallo con Lincoln, tra i caduti d’una battaglia, muti, digrignati e pietrosi sotto una bandiera immobile: molto, molto risorgimentale. Ma vediamo assai di più – e per tutto il resto del film, che si svolge quasi solo in interni e in cui accadono pochissime cose che non siano le parole – nell’aula parlamentare dove gli opposti schieramenti s’affrontano e si corteggiano, si dilaniano e s’accordano in un gioco delle parti da cui sembra rigorosamente esclusa la verità.

In effetti, talora diventa persino faticoso seguirli: i repubblicani sembrano molto più democratici dei democratici, e i radicali sembrano alleati con chiunque (praticamente come i nostri). La cosa che appare chiarissima, subito, è proprio l’affilatezza e la sporcizia di quello strumento lì, la politica. La sua capacità d’essere bisturi e mannaia, e di tagliare anche le parti sane, se capita (c’è pure una scena simbolica: una carriola insanguinata che porta via gli arti amputati dei giovani soldati…).
Ma questa è roba nota, dai comizi curiati alle presidenziali americane. E noi italiani, bicamerali e bipolari (come il famoso disturbo), lo sappiamo pure meglio di altri.
In questo panorama cupo e un po’ ossessivo, ma anche insaporito da spunti comici ­– perché la politica è sempre in bilico sulla caricatura di se stessa – si staglia, immensa, la figura di Abramo Lincoln, il Puro, l’Eletto, l’Amato dalla Nazione (no, non l’Unto dal Signore). Un uomo che non ha alcuna esitazione a servirsi di qualsiasi strumento, lecito, illecito, costituzionale e paracostituzionale, per il suo scopo.

Ma il suo scopo, signori miei – e qui sta la differenza con noi  e non solo con noi – è nobile. Una nobiltà dimessa ma lucente, schiva ma assoluta.
Daniel Day-Lewis è, come spesso gli accade, mostruoso nella sua metamorfosi fisica e psicologica: incarna appieno quel vecchietto (che poi aveva solo 56 anni: noi ne abbiamo certuni di 76 senza una ruga e con tutti i capelli) lungo e ossuto, curvo e rugoso (ma di rughe ce ne sono tante, e insistite nei primi piani: come a scrutare nel volto vecchio d’una nazione nuova, come a scoprire che la politica è sempre vecchia, sempre decrepita anche se capace di rigenerarsi di continuo). Consumato dai suoi pensieri, parco di parole che non siano atroci storielle (no, nessuna parentela coi nostri raccontatori di barzellette) o bizzarri apologhi apparentemente fuori tema, ma in realtà intrisi di sapienza metaforica e superiore. Perché con le mozioni sanno governare tutti, ma con le metafore solo pochissimi, i veri Grandi.

Lincoln porta scialletti e plaid annodati addosso, come gli anziani cagionevoli: la sua persona è modesta, un po’ cupa, identica all’oleografia dei sussidiari (l’uomo alto e legnoso con la tuba e il naso aquilino). Spesso seduto nell’ombra, a rimuginare. Sempre come separato dall’affaccendarsi degli altri (perché la politica talora appartiene ai faccendieri: la democrazia è uno sporco lavoro, ma qualcuno deve pur farlo), molto oltre e altrove nelle visioni e negli intenti.
Così la vicenda non proprio costituzionalmente adamantina dell’abolizione della schiavitù (ma è pur vero che summum ius summa iniuria) ci appare per quel che è davvero: sacrosanta, perché ispirata a principi di eguaglianza e libertà sostanziali. Fuori dal gioco delle parti, al quale pure deve sottomettersi per prendere il travestimento parlamentare e legale che è indispensabile.

Parteggiamo subito per lui, quel Lincoln Day-Lewis stupefacente anche se non amabile. Perché, sinceramente, quasi tutti gli altri personaggi (peraltro ricalcati su quelli storici – come mostriamo nelle foto – in un modo sorprendente, con filologica acribia) sembrano mere funzioni drammatiche: anche la moglie Mary, una stupenda Sally Field, consumata da un dolore privato ma first lady di spirito e di polso; anche il più accanito sostenitore dell’abolizionismo (e alla fine ne scopriremo il movente privato, privatissimo: perché la Storia si fa, oltre che sui campi di battaglia, nei letti, alle tavole e dentro i sentimenti più intimi), un Tommy Lee Jones umorale e bilioso; anche il figlio maggiore di Lincoln, Joseph Gordon-Levitt, rappresentante del più antico dilemma genitoriale (con noi nel nido o in volo fuori dal nido?) con tanto di sospetto di favoritismo familiare (qui e oggi sarebbe senatore, a capo di un gruppo industriale o nel Cda di una banca…)

Insomma, con Lincoln gli americani si son commossi (anche perché Spielberg sa esattamente quali pulsanti spingere e lo ha sempre fatto con grande mestiere e talora genialità) (ma non è questo il caso), noi magari un po’ meno, ma – retorica a parte (sì, una spruzzata ce n’è, malgrado lo stile sorvegliatissimo e i fatti “esterni”, morte di Lincoln compresa, tutti rappresentati per sottrazione ed ellissi) – lo troviamo istruttivo lo stesso. Specie in campagna elettorale. 

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