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Che brutta cosa,
le “etichette”
semplificatorie...


di Anna Mallamo

E’ calabrese: è stata la seconda cosa che abbiamo saputo, subito dopo la notizia che un uomo aveva sparato davanti a Palazzo Chigi, mentre poco lontano il nuovo governo stava giurando nelle mani del Presidente Napolitano. Calabrese e separato. Calabrese, separato e con giacca e cravatta. Nel rincorrersi un po’ a vuoto delle dirette tv incrociate, con tutti gli occhi d’Italia puntati in quei pochi metri della Roma dei palazzi, l’identità, anzi l’identikit mediatico dell’ancora misterioso sparatore di Palazzo Chigi è stato affidato a quelle tre cose: calabrese, separato, in giacca e cravatta. In un modo così stupidamente insistito –e rilanciato senza tregua nella sfera informativa in cui siamo immersi tutto il giorno, tra schermi grandi, piccoli e piccolissimi –da suscitare presto il fastidio e, per fortuna, anche l’ironia della Rete. Perché se è vero che di pochissime notizie si poteva disporre, in quei concitati momenti, e dunque venivano rimasticate all’infinito (è l’informazione in diretta, bellezza!), è pur vero che, in molti casi, quelle poche cose hanno funzionato da paradossali “etichette” che in qualche modo potessero dare una prima “forma”, consentire una categorizzazione dell’accaduto. Dubitiamo seriamente, insomma, che – se lo sparatore fosse stato di Ancona o di Cuneo –si sarebbe ripetuto all’infinito “il marchigiano”o“il piemontese”. Sono una brutta cosa, le etichette, e chi vive nel Sud –tutto il Sud –lo sa molto bene, perché deve sopportarne sempre qualcuna di troppo e che non merita. Sì, è calabrese, lo sparatore: un calabrese, come tanti meridionali, protagonista di un’emigrazione di ritorno causata dalla crisi. Separato. Lavoratore saltuario e precario. Forse vittima di una nuova, silente emergenza sociale di cui non si parla abbastanza e che alligna proprio nelle pieghe e nelle piaghe dello sfacelo economico: la ludopatia. Tutte cose che compongono –al di là della vicenda individuale di Luigi Preiti da Rosarno –un quadro esemplare di una generazione schiantata dalla crisi, con legami familiari, territoriali e sociali spezzati e soggetta a derive personali e sociali. Ma farne “etichette” semplificatorie non ci aiuterà a comprendere un gesto che –quali che ne siano le ragioni (se mai le conosceremo davvero) –ci parla con insostenibile chiarezza dei tempi cupi, violenti e venati di follia che stiamo vivendo.

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