Questo sito contribuisce all’audience di Quotidiano Nazionale

Chiamatelo
femminicidio

di Patrizia Danzè

Che il verbo “possedere” serva, piuttosto sbrigativamente, ad indicare sia oggetti che persone, tanto che non esitiamo a dire i “miei” familiari o il “mio” parrucchiere, è uno stereotipo che le culture del consumismo hanno assimilato e fatto proprio con straordinaria facilità. È un tabù ancestrale che l’uomo sia “costretto” a trattare la donna come un possesso, a chiuderla sotto chiave come un bene prezioso o come un oggetto di schiavitù, quasi - lo ha scritto Adriano Sofri di recente su Repubblica - «l’uomo intuisse e temesse una superiorità femminile, una disposizione al piacere che nessuna presunzione amorosa può del tutto addomesticare». Ma lo diceva anche Nietzsche in un tempo di grandi rivolgimenti per il “sesso debole”.

E perciò stenta l’uomo, diviso tra timore e compassione, a domare il senso del possesso che lo prende, che, anzi, viene scambiato per passione, ammantata di astuzie e di lusinghe. “D’amore si muore ancora oggi e accade nei paesi occidentali, gli stessi nei quali le strenue battaglie del femminismo, definite da Simone de Beauvoir «una causa comune per l’uomo e per la donna», hanno ottenuto conquiste necessarie al progresso della società. I numeri, ormai propri della strage, sono troppo elevati per non consentire al termine “femminicidio”, coniato dalla sociologa-antropologa messicana Marcela Lagarde per descrivere la situazione di Ciudad Juárez,  in Messico, di entrare, purtroppo, a pieno diritto nel nostro dizionario.

La Lagarde, rappresentante del femminismo latinoamericano e studiosa del mondo femminile, ha creato una Commissione  Speciale del Femminicidio, riuscendo a far riconoscere che il fenomeno non appartiene solo al Messico; ha mutuato il termine da “femicidio”, già usato, pare, nell’Inghilterra dell’Ottocento e ripreso dalla femminista sudafricana Diana Russell nel 1976 quando fu tra gli organizzatori a Bruxelles del primo Tribunale Internazionale dei crimini contro le donne. E benché qualcuno storca il naso sostenendo che risulti cacofonico, abusato e offensivo (giacché rimanderebbe all’idea animalesca di “femina”), “femminicidio” è più pregnante di delitto d’onore, di violenza contro le donne, di omicidio, di uxoricidio. Termini dietro ai quali stanno in agguato ideologie, giustificazionismi, eufemismi, se non negazionismi.
“Femminicidio” (Franco Angeli, pp. 208, euro 24) è infatti il titolo del libro di Barbara Spinelli, avvocato CEDAW (Committee on the Elimination of Discrimination against Women) che con il contributo di Patrizia Romito dà rilievo sia alla lotta delle donne latinoamericane per il riconoscimento giuridico del femminicidio come crimine contro l’umanità, sia all’alleanza tra donne e Ong a tutela dei diritti umani.  

Cosa spinga giornalisti/e, scrittori/scrittrici, conduttori/conduttrici radiotelevisivi/e, a scrivere di “femminicidi” è, evidentemente, un’esigenza etica che all’interesse urgente per la giustizia unisce l’empatia per gli esseri umani. Libri veloci (peraltro superati dagli eventi luttuosi che si sommano gli uni agli altri) che per una sorta di legge del contrappasso raccontano storie lunghe di prepotenze, di maltrattamenti, di violenze (altro che raptus!), forse perché la lettura rapida è l’unico mezzo per poter “digerire” l’ossessiva ripetitività di tante, troppe situazioni tragicamente simili. E forse perché si capisca che il problema non risiede solo negli uomini ma anche nelle donne, nelle famiglie e nei modelli.

L’assassinio costituisce l’estremo atto di dominio: è questo il filo conduttore di “Mia per sempre” (Mondadori, pp. 187, euro 17) di Cinzia Tani, giornalista e conduttrice di programmi radiotelevisivi che ha sempre scritto di donne-Medea, donne assassine; e adesso scava dentro l’omicidio che cova all’interno della coppia ed è lo sviluppo tragico di una  situazione di passioni malate, dal folle desiderio di possesso al delirio di onnipotenza, dal narcisismo patologico al blackout della furia omicida.
Ma perché indugiare sul femminicidio anche con i racconti, quando la realtà è già così truce? Ce lo spiega Simonetta Agnello Hornby che con Marina Calloni (docente di Filosofia politica e sociale a Milano-Bicocca) ha scritto “Il male che si deve raccontare” (Feltrinelli, pp. 188, euro 9). La Hornby ricorda come in seguito al caso di una coppia che nel 1977 capitò nel suo studio (Hornby&Levy) decise di aprire una divisione dedicata esclusivamente ai casi di violenza domestica, la prima in Inghilterra. E uno dei temi trattati nel libro (e più discussi nel femminismo internazionale) è la teoria dell’intersezionalità; non basta dire donna, perché non tutte le donne sono uguali, vi sono diversità nella differenza. «La violenza è potere e il potere è come una droga, difficile da abbandonare» scrive la Hornby, rievocando ricordi infantili di interni di case padronali dove la violenza può sembrare a una bimba «un divertimento macabro dei poveri, con un non so che di peccaminoso».

Perché un libro? Non bastano la tv, i giornali che documentano con immagini raccapriccianti? No, non bastano, ci vuole il libro perché esso ha un ritmo lento che aiuta i pensieri e i ripensamenti: lo spiega Serena Dandini in “Ferite a morte” (Rizzoli, pp. 216, euro 15), dove con l’aiuto di Maura Miasiti, ricercatrice CNR, ha provato a ricostruire le radici di questa violenza (in calce sono riportati documenti inequivocabili dove l’Italia ha un posto di rilievo). Dedicato a  Carmela e alla sua famiglia (ma la sua storia non c’è per rispetto della diciassettenne che ha incontrato il ragazzo sbagliato), Dandini mette in scena il teatro dell’abuso presentando le storie di donne che almeno da morte, o da vive-morte, sono “libere” di raccontare la loro storia.

Un libro a tesi per dimostrare che siano false (tutta la collana è così concepita), del tipo “Il femminicidio non esiste” (uno dei capitoli) hanno scritto per parlare dei malati d’amore malato una giornalista/conduttrice radiofonica e una scrittrice: Loredana Lipperini e Michela Murgia in “L’ho uccisa perché l’amavo. (Falso)” (Idòla/Laterza, pp. 80, euro 9) spiegano come ci sia una certa propensione a leggere i femminicidi come fatti inspiegabili, frutto di un raptus che affonda nelle caverne di una psiche, nella sfera dei misteri più segreti dell’animo umano, ma ovviamente ne svelano la falsità.

Un punto di vista più che maschile, ma piuttosto umano, quello di Riccardo Iacona, giornalista Rai, in “Se questi sono gli uomini” (Chiarelettere, pp. 257, euro 13.90) con una documentata appendice di elenchi di donne uccise nel 2012, e indirizzi dei centri antiviolenza aderenti alla rete nazionale antiviolenza 1522 e all’associazione nazionale DiRe. Una storia collettiva dal Sud al Nord, che coincide con un viaggio cominciato a Enna e finito a Milano: un libro (sulla cui copertina appare la parola “strage”) scritto «per stare tutti meglio, le donne, gli uomini, e i nostri figli».

E se “Nessuna più” (Elliot, pp. 249, euro 15), a cura di Marilù Oliva con prefazione di Roberta Bruzzone, raccoglie i racconti di quaranta scrittori contro il femminicidio (i proventi del libro andranno al Telefono Rosa), “Questo non è amore”, (Marsilio, pp. 272, euro 16,50) è il volume scritto dalle autrici del blog del Corriere della Sera “La 27esima ora” con 20 racconti “rosa” di violenze quotidiane. Di fantasia i nomi delle protagoniste tranne quello di Ileana Zacchetti, assessore alle Politiche sociali e alle Pari opportunità del Comune di Opera, nel Milanese, che ha messo da parte l’anonimato per «andare sino in fondo». Recente è anche “I labirinti del male” (Infinito edizioni, pp. 176, euro 14), scritto da Luciano Garofano, ex comandante dei RIS di Parma, con la giornalista Rossella Diaz. Il testo, che ha la prefazione di Barbara Palombelli e la postfazione di Alessandro Meluzzi e dal quale è stato tratto anche uno spettacolo teatrale, parla ancora di femminicidio, stalking e violenza sulle donne in Italia, piaghe da combattere con il doveroso intervento delle istituzioni e con la collaborazione delle donne stesse che devono trovare il coraggio di denunciare.

Trovano certamente il coraggio di reagire i personaggi di “Le vendicatrici” (Einaudi, pp. 328, euro 15) di Massimo Carlotto e Marco Videtta che danno voce nei quattro volumi della serie a quattro donne, Ksenià, Luz, Sara ed Eva, accomunate da una “solidarietà” con la quale combattono i loro aguzzini. Lo scenario è quello di una Roma feroce e criminale dove la vita umana vale sempre meno, ma su cui aleggia tuttavia una luce di speranza, una volontà di cambiare che supera il “manicheismo” di fondo della storia: tra i maschi sempre più carnefici emerge una figura positiva, un altro commissario nazionale, Mattioli.

Caricamento commenti

Commenta la notizia