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Siria e gas nervini:
ecco tutti i retroscena


di Piero Orteca

Toh! Ci s’indigna per la Siria. Dopo centomila morti a qualcuno rimorde la coscienza per l’uso (ufficialmente solo “presunto”) dei gas nervini. Come se tutti coloro (donne e bambini in primis) crepati finora per colpa di una fucilata alla nuca o per lo scoppio di una bomba convenzionale fossero, tutto sommato, morti più “accettabili”. E allora viene il sospetto che, dietro una simile mobilitazione, tanto al chilo, ci sia dell’altro. Il puzzo di bruciato che sale dai sepolcri imbiancati della politica internazionale è troppo forte per credere che qualcuno si commuova sul serio. No. Non fatevi prendere in giro. Dietro le povere vittime di Damasco si cela un gioco al massacro (è il caso di dirlo) fatto di ricatti e contro-ricatti, tra grandi potenze (o presunte tali) che si danno battaglia, nel campo neutro siriano, per sporchi interessi geo-strategici e, naturalmente, economici. E a cui del milione di bimbi profughi frega assai poco. Perché la lite è sempre per la coperta, checché ne possano pensare i benpensanti e i gonzi in servizio permanente effettivo. Dunque, se veramente vogliamo capirci qualcosa, grattiamo la vernice dell’indignazione e andiamo direttamente alla ruggine del telaio, facendo nomi, cognomi e indirizzi. Gli oppositori parlano di un numero di vittime “reali”che sarebbe compreso tra 200 e 650, risultato degli attacchi condotti dagli aerei di Assad nei quartieri est di Damasco tenuti dai ribelli. Il governo siriano smentisce e ammette solo l’utilizzo di “armi convenzionali”, mentre la tv di Stato ritorce le accuse sui ribelli (“hanno usato armi chimiche nel quartiere di Jawbar”). Mancano finora prove decisive. O, almeno, così sostengono, senza bagnarsi e asciugarsi, allo stipendificio dell’Onu. E a tutti quelli che strepitano, anticipando un intervento militare diretto degli Usa, diciamo di andarsi a leggere l’intervista che Obama ha rilasciato, corta e netta, alla CNN, di cui parliamo diffusamente più avanti. La sintesi? La crociata anti-Siria partirà solo col mandato delle Nazioni Unite. Cioè in un futuro alquanto incerto, perché Russia e Cina si metteranno di traverso. A meno che Obama non s’inventi un coperchio diplomatico in stile Kosovo. Molto difficile. Secondo quello che dicono i servizi segreti israeliani, il gas sarebbe stato effettivamente lanciato dalle forze lealiste. Si tratterebbe – attenzione, perchè qui sta tutto il bandolo della matassa – di una “risposta” ritagliata su misura per Obama che, zitto zitto e quatto quatto, sta addestrando forze ribelli in Giordania per intervenire (come abbiamo già anticipato un mese fa) da sud. Ebbene, non siamo ancora in grado di dirvi l’orario, ma il giorno in cui i primi 250 uomini, spediti dagli americani, sono entrati in Siria, quello sì. Sabato 17 agosto. Altri 300 hanno invece varcato la frontiera lunedì 19 e prendono già parte ai combattimenti intorno alla capitale. La brigata “made in Usa” si è unita ai rivoltosi locali, scelti (e qui sta il la- to più complicato di tutto l’inghippo) tra coloro che non hanno legami con i jihadisti di Jabhat al Nusra. In pratica, per capirci, la “filiale”locale di al Qaida. I ribelli, avanzando velocemente lungo il confine israelo-giordano, dopo aver conquistato i villaggi di Raihaniya, Breiqa e Beer Ajam, hanno costretto i governativi ad arretrare. Una tattica concordata con l’esercito di Gerusalemme, per creare una zona cuscinetto tra il Golan e la provincia di Horan. Intanto, nuovi contigenti di ribelli sono pronti a varcare il confine per dirigersi verso Deraa e Jabal Druze. L’operazione del Pentagono, sia pure “per interposta persona” (non sono coinvolti soldati americani) rappresenta un guanto di sfida. Non solo nei confronti di Assad, ma soprattutto dell’Iran. E anche della Russia. L’offensiva degli Stati Uniti è stata lanciata dopo la visita in Giordania del capo di Stato maggiore, generale Martin Dempsey, recatosi in quelle desertiche contrade per “inaugurare” la “war room”, il centro operativo di combattimento che coordina la nuova avventura in cui Barack Obama sta cercando disperatamente, (come vedremo) di limitare i danni, tenendo un piede dentro e uno fuori. Almeno fino a quando gli riesce. Bashar al-Assad, però, ha più volte ribadito che qualsiasi intervento “esterno” (e quello, anche “indiretto”, degli americani viene considerato tale) avrebbe finito per provocare una dura reazione, tale da mettere a ferro e fuoco l’intero Medio Oriente. Come? Ma con i gas nervini, è semplice. Insomma, occhio, perchè il momento è di quelli terrificanti. La botta potrebbe arrivare a ogni istante, da qualsiasi lato e soprattutto sulla testa di tutti, dato che il polverone è talmente fitto che non si distinguono più gli amici dai nemici, manco a dipingerli con la vernice fosforescente. Questo l’hanno capito anche alla Casa Bianca. E infatti Obama, un colpo al cerchio e uno alla botte, “riflette”. Al massimo potrà ordinare qualche attacco aereo (magari con i “drones”)o l’istituzione di una “No-fly zone”. Niente truppe di terra, questo è sicuro. Nell’intervista alla CNN già citata (e riportata con dovizia di particolari e acuti contrappunti da Mark Mardell, North America Editor della britannica BBC) il presidente Usa afferma: “A volte, in simili circostanze, abbiamo sentito voci che invocavano una nostra reazione immediata che, francamente, non otterrebbe i risultati sperati. Non vogliamo essere coinvolti in interventi difficili e costosi, che potrebbero rivelarsi controproducenti e sollevare maggiori risentimenti nella regione”. Tradotto dal politichese, Obama, con le terga ancora ustionate dall’avventura libica e dalla “Primavera” egiziana, prima di farsi trascinare, con tutte le scarpe, in un altro covo mediorientale di serpenti, ci penserà sedici volte. Per ora si accontenta di tenere a bagnomaria Assad e gli inferociti ayatollah iraniani. E di mostrare i muscoli. Ha compreso che basta una mossa sbagliata per far saltare in aria il Piccolo chimico della diplomazia, con tutto il laboratorio. In questo caso il botto potrebbe fare vibrare i vetri delle finestre fino a Washington. Anche la Merkel, a meno di un mese dalle elezioni, sarebbe una folle a cercarsi i guai col lanternino. Per cui avanza coi piedi di piombo. Un’antifona che non è stata nemmeno percepita, elaborata e metabolizzata dal presidente francese Hollande, il quale vuole la guerra. Tutta e subito. Il novello Napoleone “de noantri” ha la memoria corta e non ricorda le maccheronate combinate in tutto il Nord Africa dal suo predecessore, Capitan Fracassa-Sarkozy, ammaliato da una politica di “grandeur” del piffero, che ha lasciato segni evidenti sulle nostre carni. E meno male che, a Bruxelles, vive (e vegeta, sia detto senza offesa) la Baronessa Catherine Ashton of Upholland, “commissaria” europea agli Esteri. Sì, proprio quella della solidarietà, “gratisetantobasta”, ai nostri due marò. La Ashton, che, dicono, entri in crisi di nervi perfino quando deve scegliere tra ketchup o maionese, finirà per adeguarsi, allineata e coperta, agli ordini e alle bacchettate in arrivo dalla Casa Bianca. Questa è l’Europa. Quella “Unita” solo sulla carta, incollata con lo scotch e formata da una pletora di Paesi capaci solo di parlarsi addosso, prima di precipitarsi, sgomitando, al buffet di turno. Ognuno per conto suo. E regolarmente “indignato” per la Siria, è ovvio.

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