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Libia, l’Occidente è
caduto dalla padella
nella brace


di Piero Orteca

La Libia ? È la metafora indiscussa del clamoroso fallimento occidentale nel mettere il naso, a capocchia, nelle cose dell’Islam. Ormai sono rimasti in pochi intimi a credere alla favoletta della “Primavera araba” e della “esportazione  della democrazia” . Certamente non fa parte della congrega degli “armiamoci e partite” Barack Obama, che ha lottato per non ripetere in Siria gli errori clamorosi, anzi, le maccheronate,  fatte dalle parti di Tripoli, andando al traino degli ex colonialisti franco-inglesi. Intendiamoci, per sgombrare il campo dalle possibili osservazioni dei perbenisti in servizio permanente effettivo, una cosa va subito sottolineata: qui nessuno si sogna di difendere la tristissima epoca del regime di Gheddafi. Ci mancherebbe altro. Solo che, per risolvere una malattia al cervello, uno non si può sparare alla testa. In Libia siano caduti dalla padella nella brace e i tizzoni ardenti si vanno spargendo in tutto il Nord Africa, fino al Sahel ed oltre. Oggi l’ex colonia italiana è, probabilmente, la regione più instabile e pericolosa di tutta la Mezzaluna. Una specie di Libano al quadrato, dove dominano caos, faide tribali, odi etnici e strani intrecci tra politica e criminalità organizzata. Come sanno all’Onu in tutti i dettagli, avendo commissionato, in tempi non sospetti, studi approfonditi sulle mafie dell’emigrazione. Una Catena di Sant’Antonio dove mangiano tutti, sulle spalle dei poveretti che affogano a migliaia nelle acque del Mediterraneo. Ma questa è una storia che va raccontata in tutti i dettagli, magari con un approfondimento ad hoc che ci ripromettiamo di riproporvi, per togliere la maschera ai professionisti dell’indignazione, a quei politici europei che sapevano da anni e non hanno mosso un mignolo per prevenire tragedie abbondantemente annunciate. Ma mettiamo da parte i sepolcri imbiancati di Bruxelles e  loro corifei che bivaccano, lautamente pasciuti, nei corridoi degli stipendifici dell’Unione, e torniamo al bubbone libico. L’ultimo rovescio in ordine di tempo è stato il rapimento (e la successiva liberazione) del primo ministro, Alí Zeidan. In pratica, l’ennesimo calcio in faccia a tutti quei gonzi (o imbroglioni in malafede) che ancora cianciano di “democrazia” in Libia. Un posto, Parlamento compreso, dove sai quando entri, ma non riesci a prevedere se e quando potrai uscire. Alla Casa Bianca tutte le lampadine rosse dell’emergenza lampeggiano da un pezzo. Almeno da quando, un anno fa, la nuova coscienza “democratica” tripolina si tramutò nel sanguinoso attentato contro l’ambasciatore Usa Stevens e tre alti ufficiali della Cia. Stecchiti a raffiche di mitra e a bombe a mano da un commando integralista che portava le stimmate di al Qaida. Cosí, chi a Washington si aspettava “gratitudine” dai libici, è rimasto servito di barba e capelli, realizzando di avere messo piede in un covo di serpenti pronti ad azzannarti. La chiave per comprendere cotanto pandemonio è semplice: la guerra anti-Gheddafi, organizzata a tavolino dai servizi segreti francesi, non è stata una rivolta “per la libertà”, ma solo un bagno di sangue tribale, combattuto per vendetta e interessi materiali e destinato a non chiudersi tanto presto. La squadra “perdente” degli adviser obamiani (poi diventata “vincente” sulla Siria) aveva visto giusto, tentando disperatamente di convincere la Casa Bianca a non andare appresso a quell citrullo di Sarkozy, un Capitan Fracassa senza arte e né parte. Oggi il danno è fatto e l’Occidente, Europa in primis, è costretto a mettere assieme i cocci. E ora? La sfera di cristallo libica farebbe venire l’emicrania anche a Nostradamus. Gli americani l’hanno capito da un pezzo e, con un paio di ardite piroette, hanno cercato di darsi alla fuga, lasciando la patata bollente nelle mani, tremebonde, della Disunione Europea. Warfallah, az Zintan, Awlad Busayf, Maslata, Masrata, al Rijiban, al Majabra, Quaddafi (vi dice niente?), al Maghara, al Riyyah, al Haraba, al Zuwaid, Bani Salim, al Obeidi, Misratha, al Awagir, Tawajeer, Ramla, Kargala, Kawar, al Abadyat, Faryan, Drasa, Masamir, al Barasa, al Fakhawir: sono “solo” le tribù libiche più importanti. Nel mazzo metteteci anche berberi, centinaia di clan e sotto-clan arabi, giù fino alle singole famiglie patriarcali, pronte a scannarsi per il furto di un cammello o per un matrimonio andato male. Nel ginepraio etnico del “cassone di sabbia” di giolittiana memoria avrebbe fatto fatica a districarsi anche un antropologo del calibro di Lévi Strauss. Figurarsi inglesi e francesi, intenti a spartirsi i pani e i pesci con tutta la compagnia di processione che si sono tirati dietro. Per non parlare dei cinesi, pronti a sciamare, dollari alla mano, per comprarsi uranio, petrolio, aziende più o meno decotte e aree desertiche dove forse pianteranno zucchine. La fine di Gheddafi è stata solo l’inizio di un nuovo capitolo tutto da scrivere. Avevano visto giusto, negli Stati Uniti, gli autori dei “report” scaraventati dall’intelligence sulla scrivania di un atterrito Obama. Per la serie “presidente avvisato, mezzo salvato”. In sostanza, dentro il Consiglio di Transizione di Tripoli i fondamentalisti islamici già affilavano i coltelli il giorno dopo l’uccisione di Gheddafi. Realizzato (ci voleva la laurea ad Harvard…) il nuovo pericolo, le teste d’uovo a stelle e strisce hanno cambiato registro. Frenando sulla “democrazia” e cercando di mettere il sale sulla coda ai qaidisti che si annidavano tra i ribelli anti-Gheddafi. Detto fatto, l’altro giorno gli è riuscito il colpaccio, quando sono riusciti ad acchiappare al-Liby,  un pezzo grosso di al Qaida, mente di mille attentati, che risiedeva, a pensione completa, dalle parti di Tripoli. Il che è tutto dire. La reazione dei fondamentalisti è stata fulminea e si è concretata nel sequestro del premier Zeidan, tanto per far capire a Obama chi comanda da quelle parti. La britannica BBC si chiede, forse un po’ ingenuamente, come possa essere rapito un primo ministro. Stupendosi, manco fossimo nei giardini di Westminster. Anche se, subito dopo, si dà la risposta, dopo aver passato al setaccio nomi, cognomi e indirizzi di ministri e sottosegretari, tripolini e cirenaici, tutti ecumenicamente legati, a filo doppio, a milizie, tribù e bande armate. Detto per inciso, esercito e polizia fanno la parte delle belle statuine. Nelle occasioni “cerimoniali” gli uomini di governo preferiscono essere protetti (pagando) da gruppi di tagliagole, da cui si sentono, evidentemente, più garantiti. Alla faccia dei sacri principi della democrazia elettiva. Insomma, un disastro. Che lo scontro non sia solo etnico e “ideologico”, ma spesso si riveli una lite “per la coperta”, è testimoniato da quanto succede ai terminal petroliferi, con le milizie che bloccano le esportazioni e poi le permettono in cambio del “pizzo”. Si calcola che un andazzo di questo tipo, negli ultimi mesi, sia costato al Paese 130 milioni di dollari al giorno. Ergo: Obama non riesce più a mettere le pezze giuste ai buchi provocati dall’imbecillità degli (ex) “interventisti” occidentali. In Africa e in Medio Oriente, la politica estera europea ha fatto errori formidabili. O, peggio, ha stirato le cose di qua e di là, pensando solo al tornaconto dei soliti furbi. L’Algeria è abbuffata di gas e petrolio, il Niger di uranio, il Mali ha riserve d’oro che allupano numerosi “cultori” della democrazia. Rovesciato Gheddafi, i Tuareg sono tornati nel Sahara portandosi appresso armi e bagagli. Qui hanno fatto comunella con gli integralisti algerini del “Gia” (Gruppo Islamico Armato), con le quinte colonne di Aqim (Al Qaida in Maghreb) e con i “barbudos” in arrivo dal Sudan. La multinazionale del terrore ha ormai solidi legami anche con i “Boko Haram” della Nigeria e con gli “Shabab” somali. Continuando di questo passo, al Zawahiri e tutto lo stato maggiore di al Qaida si ritroveranno mezza Africa servita su un piatto d’argento.

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