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In Corea del Nord una
faida all’ultimo sangue


di Piero Orteca

  Vatti a fidare dei parenti! L’a ssunto, già di antica saggezza, diventa logica quotidiana in quei Paesi dove la foia del potere gioca brutti scherzi. Come certe dittature comuniste, specie in via di estinzione, di cui la Corea del Nord rappresenta, forse, l’ultimo esemplare, nel bestiario internazionale degli orrori. Jang Song-thaek, zio dell’attuale leader della Corea del Nord, Kim Jong-un, è stato fucilato dopo un processo- lampo (e farsa) per “alto tradimento”. Tanto per capire di cosa stiamo parlando, va aggiunto che Thaek era, in pratica, il numero 2 del regime ed era stato scelto dal cognato, l’ex “imperatore rosso” Kim Jong-il, prima di passare a miglior vita, come “tutor” del figlio Jong-un. Che ora gli ha fatto la festa. L’agenzia di stampa nordcoreana (Kcna), nel riportare la notizia, scarica sulla capa del povero Thaek una valanga di accuse e una cofanata di contumelie. Utilizzando quella che la rivista Foreign Policy definisce “una prosa biblica”, la Kcna parla di “triplo tradimento” a cui la sentenza del popolo ha replicato “con una martellata sulla testa”. L’agenzia riferisce che lo zietto si sarebbe pappato la bellezza di 4,6 milioni di euro, sparandoseli poi tutti al casinò. Per completare l’opera, Thaek avrebbe “rovinato l’e c onomia nordcoreana con una riforma monetaria fallimentare”, condotta da un suo uomo, Pak Nam-gi, che i Kim avrebbero già sotterrato tre anni fa. Ora, a parte che ci vorrebbe un’impresa epica per “d i s t r u ggere” il Giardino dell’Eden di Pyongyang, dove da decenni non cresce manco un filo d’e rba, va anche detto che 40 mesi sembrano assai per scoprire un complotto definito “s e g r eto”. Anche se, va pure aggiunto, in Corea del Nord, se vuoi campare, sei costretto a parlare nell’orecchio del tuo interlocutore, perché i microfoni e le “cimici” te le piazzano anche nel bagno di casa. E allora? Beh, la verità è un po’ più inquietante, specie se si tiene a mente che il regime medievale dei Kim ha gli arsenali stipati di bombe atomiche. In questo momento, i sudcoreani sono sull’orlo di una crisi di nervi, i giapponesi sono più gialli del solito e a Obama i sudori freddi bagnano la schiena. Il motivo è semplice: Thaek era l’uomo dei cinesi. Il mediatore incaricato di tenere il mastino coreano al guinzaglio, allentando o tirando la catena, a seconda delle necessità. Tutte le crisi nucleari con Pyongyang, che ogni tanto minaccia il finimondo, sono state risolte (e prima scatenate …a comando) proprio da Pechino. Una spada di Damocle e una rogna per l’Occidente, ma anche, stringi stringi, una garanzia che alla fin fine tutto si sarebbe concluso a tarallucci e vino. Ora l’equazione cambia. E di molto. Jong-un, il pargolo, soffre di raptus di gelosia, tanto è vero che alcuni mesi fa, per la serie a chi tocca tocca, ha fatto fucilare persino l’ex fidanzata. Finora, all’estero nessuno se lo filava. Era visto come una specie di figlio “b a bbo”, come diciamo dalle nostre parti, che lo zio aveva condotto per mano a un potere fin troppo grande per lui. Una relazione quasi paternalistica, nella quale Thaek sembrava lo zietto pronto a comprare il motorino al nipote, per premiarlo della promozione a scuola. E invece Jong-un il motorino se l’è comprato da solo, e poi lo ha fatto ingoiare, con tutti i cerchioni, al suo “t utor”, colpevole di fargli ombra. La prima domanda che i servizi segreti occidentali (e non solo), si pongono è: il “n i p o t ino” s’è inventato il colpo da solo? E ancora. È stato costretto a sacrificare il suo stretto parente per salvare se stesso da una faida che sembra, contemporaneamente, generazionale, partitica e che tocca i vertici militari? Al primo quesito si può rispondere “no”. Per riuscire a esautorare un personaggio potentissimo come Thaek, occorre coalizzare forze sparse in tutto l’a p p a r ato. Kim Jong-un deve essersi appoggiato a una precisa fazione. Questa potrebbe essere, implicitamente, una risposta alla seconda domanda. Il nipote, per garantirsi una sopravvivenza (non solo politica) di lungo corso, è stato costretto a crearsi una lobby di fedelissimi. I quali potrebbero averlo spinto ad agire, rompendo gli indugi. E chi ci dice, poi, che, per stabilizzare il Paese e liberarsi della rogna nordcoreana, occidentali e cinesi non stessero, a loro volta, preparando il “piattino” p r oprio a Jong-un, per liberarsene, puntando tutte le “fiches” sul saggio Thaek? In effetti, era lui a tenere il filo diretto con Pechino. Nell’agosto del 2012 aveva incontrato i leader di allora, Hu Jintao e Wen Jabao, mentre Jong-un, che i cinesi non hanno mai preso troppo sul serio, aspettava a casa, giocando coi soldatini. Thaek era un po’ il Richelieu della situazione, anche perché i gravi problemi di salute del cognato-leader, Kim Jong-il (padre di Un), lo avevano posto nel ruolo di “reggente” nell’attesa che le cose maturassero. Adesso bisognerà vedere come reagirà Pechino. Che forse qualcosa doveva aspettarsi, perché mano a mano che il caicco nordcoreano affondava, capitani, nocchieri e marinai si buttavano in acqua e salutavano (compresi due vice primi ministri). Insomma, già da parecchi mesi, troppi alti ufficiali di Pyongyang saltavano il fosso e andavano a rifugiarsi in Cina, dove cantavano come uccellini, fornendo notizie fresche sul castello di Macbeth di Jong-un. Tra le altre cose, e questo complica non poco il minestrone, sembra che con i cinesi, che giocavano con due mazzi di carte, collaborassero (e collaborino ancora oggi) addirittura i servizi segreti di Seul, quelli del Sud, nemici acerrimi di Pyongyang e (possibili) vittime predestinate, assieme ai giapponesi, delle paturnie nucleari del giovane Un. Gli analisti più scafati, comunque, sono convinti che la cosa non finisce qui. Thaek si tirava appresso buona parte dell’apparato che, rimasto in mezzo al guado, potrebbe tenere un profilo basso per evitare ulteriori conseguenze. O reagire. A Stratfor (prestigioso think-tank Usa) temono che lo scontro degeneri, coinvolgendo famiglie, clan, fazioni del partito, il vecchio establishment, quello di mezzo (che per ora è stato spazzato via) e i “giovani leoni”. Questi ultimi, tutti appresso a Jong-un. Come spesso è avvenuto nella storia, dall’impero romano fino alle carneficine interne scatenate da Hitler (Notte dei lunghi coltelli nel ’34) o Stalin (nel ’37), la “peristalsi” p o l i t ica delle dittature sfocia invariabilmente nelle “purghe”. Veri e propri periodi di repressione sanguinaria, in cui non si distinguono più gli amici dai nemici e viceversa. Stalin, per esempio, ammazzava preventivamente gli “amici” (non si fidava manco della sua ombra), perché, diceva, “i nemici li conosco e li tengo sotto controllo”. Ora, il caso nordcoreano riproduce fedelmente questo tragico schema. Se Kim Jong-un vorrà dimostrare di tenere saldamente in pugno la situazione, allora potremmo vederne di tutti i colori. I servizi segreti occidentali sono in allarme: il giovane e poco equilibrato leader potrebbe essere tentato di mettersi a sparare missili nell’Oceano Pacifico, tanto per far capire chi comanda. I giapponesi si aspettano una fase di instabilità, che il Ministro della Difesa, Itsunori Onodera, ha paragonato ai tempi cupi della “Rivoluzione culturale” cinese. Quando per essere ammazzati bastava una guardata di sguincio. Insomma, a Tokyo, come a Washington e a Pechino, hanno le mani ai capelli. Cominciano a pensare che, per raffreddare i bollenti spiriti di Kim Jong-un (sempre che duri) non basterà accarezzarlo per il verso giusto, con la carnagione che si ritrova, delicata come quella di un porcospino.

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