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La difficile missione
della letteratura

 di Anna Mallamo

Di cosa è fatta la vita? Di ciò che non lascia traccia? Dove resta scritto, dove resta segnato l’amore che facciamo? Un’azione, un gesto umano sono in grado di modificare il corso delle cose? Le idee, almeno le idee, ci sopravvivono? Qualcuno ha detto che la qualità d’un romanzo è nella quantità di domande che ci pone. E le migliori, di quelle domande, son sempre le stesse, e hanno a che fare col modo misterioso, eppure palese, che il tempo ha di agire con le nostre vite, i nostri fuori e i nostri dentro, quella che chiamano Storia e quelle che chiamiamo storie, le nostre. Dunque il tempo, e le vite che modifica e costruisce, è l’oggetto principale di chi racconta, che sia uno storico o un narratore. Paolo Di Paolo, il giovane autore di romanzi molto premiati (“Dove eravate tutti”, 2011, e il recente “Mandami tanta vita”, finalista allo Strega, entrambi Feltrinelli) – che martedì a Messina, alle 10, incontrerà gli studenti del liceo Maurolico nella sala consiliare del Comune e nel pomeriggio alle 18 sarà al Feltrinelli Point e mercoledì dialogherà con gli studenti del liceo Galilei di Spadafora alle 9.30 nella sala consiliare di Villafranca – ha un modo affascinante di fare del tempo il suo oggetto imprendibile eppure costante: il tempo che ci sfugge mentre ci costruisce, che ci finisce mentre ci accumula. Il tempo che sedimenta – apparentemente – nei “documenti” che lasciamo di noi, che siano una raccolta di figurine o un rivoluzionario saggio di politica o letteratura. Il tempo imprendibile delle fotografie, la più enigmatica delle invenzioni. E lui, Paolo Di Paolo, è uno studioso certosino di documenti: per esempio il bell’epistolario tra Piero Gobetti e la moglie Ada (“Nella tua breve esistenza. Lettere 1918-1926”, Einaudi), il testo fondante di “Mandami tanta vita”, che non è in alcun modo – chiariamolo – un ritratto di Piero Gobetti, più di quanto non sia il ritratto dell’immaginario Moraldo (l’altro protagonista, dal nome felliniano, del libro), più di quanto non sia possibile, e forse lecito, ritrarre chiunque, coi mezzi spuntati e magnifici dello storico, del narratore.

Non sapremmo mai, infatti, se non per deduzioni secondarie, chi è il giovane smilzo dai ricci chiari e gli occhialetti tondi che Moraldo incontra, nel primo capitolo, in un’aula universitaria, e trova energico, determinato, persino spavaldo; un giovane precoce, il cui ingegno è già celebrato. Un giovane per cui Moraldo, l’insicuro, il nebuloso Moraldo, prova trasporto e assieme invidia: è la “compiutezza” che assegniamo invariabilmente agli altri, specie a quelli che si distinguono ai nostri occhi. Senza ricordarci che ciascuno, dentro di sé, è invece pulviscolare e incerto, privo di nitidezza e bombardato da dubbi, da indizi che non sono mai prove, da “documenti” che non provano che se stessi.

Piero lo incontreremo alcuni capitoli dopo. Sì, è Piero Gobetti, il ragazzo di genio, il giovanissimo intellettuale antifascista la cui statura si vede fin da quaggiù, dagli anni malfermi del Terzo Millennio. Gobetti a una svolta fondamentale della sua breve vita: in due mesi diventerà padre, lascerà l’Italia, morirà a Parigi a soli 24 anni. Quel che Di Paolo mette assieme, nei capitoli in cui Moraldo e Piero si scorrono paralleli senza incontrarsi – nemmeno quando s’incontrano davvero, casualmente, su una panchina, nell’ultimo giorno di vita di Gobetti, nell’ultimo giorno parigino di Moraldo, viaggiatore sbandato – è appunto un pulviscolo di domande, di sensazioni, di pensieri, di vita qualunque. Eppure è un momento capitale per l’Italia, stretta nella morsa del fascismo (proprio per sottrarsi alla persecuzione fascista Gobetti si rifugia in Francia). Ma come raccontare le epoche intere, se persino le vite dei singoli – persino la nostra, direbbe l’io narrante di “Dove eravate tutti” – son così oscure e sfuggenti?

Che sia una pagina di Facebook stracarica di foto, che sia una lettera ingiallita del mondo in cui la vita era «scrivere lettere, aspettarle», che siano i testi rimastici della straordinaria fioritura d’un giovane ingegno, siamo sempre al di qua del muro, «al buio e nella polvere», come «un antiquario, un becchino, un vampiro» che chiede notizie al passato e al presente senza riceverne alcuna certezza ma solo supposizioni, lampi, briciole. Così del non-incontro di Moraldo e Piero, delle incertezze dell’uno e dello splendore dell’altro vediamo come il negativo, il barlume di ciò che ci è possibile indagare con gli strumenti consueti del narratore, che degli storici è il più ardito: ne leggiamo le domande, ne vediamo le fragilità (e quanto somigliano, comunque, alle nostre!).

Il tempo di Moraldo e Piero è un tempo drammatico (ma nel libro il dramma non c’è: è tutto come ovattato e lontano), un tempo in cui le coscienze più lucide s’interrogavano sulla necessità di agire, di non piegarsi «alle allucinazioni collettive», di «restare nella politica nel tramonto della politica». La nostra epoca è diversamente drammatica, ma il caos etico e il buco nero della politica c’impongono gli stessi interrogativi, la stessa necessità di suscitare le coscienze che fu la missione del giovane Gobetti.

Il rovello fondo è sempre lo stesso: la vita è stretta, ci passano poche cose per volta, dobbiamo fare in modo che siano grandi. La letteratura può fare questo miracolo: aumentare la portata della vita. Delle emozioni, delle idee, delle scelte. Mandarci tanta vita.   

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