Un’Italia, l’attuale, che ha talenti col contagocce. Se ne vedono davvero pochi, ovunque si volga lo sguardo. Un Paese che, tranne alcune irriducibili eccezioni, legge meno del minimo sindacale, approfondisce nulla o quasi, e s’accontenta dell’ovvio. Evviva il buon senso comune: per esser paghi basta intrattenersi e far ghirigori intorno al ragionevole. La gran parte degli italiani, addomesticata dalla tv – quella dei peggiori talk show, grondanti di “specialisti” e improvvisatori buoni per tutti gli argomenti – che insegna rassicuranti categorie e rivendibili soluzioni, non vuol capire ma “sapere”, non vuole accedere a pensieri ma a informazioni e facili slogan. Poveri noi, ché molti degli “specialisti” sono spesso ex improvvisatori che hanno avuto accesso a cattedre e onori “per usucapione”… Quasi tutti insulsi e tristissimi, i programmi tv di queste ultime quarantott’ore su Yara e sul triplice omicidio di Motta Visconti: un campionario di luoghi comuni tra “derive psichiatriche” e“condizione femminile”, tra saggezza quale si può esprimere in un salone da barba o davanti a un bicchiere, nazionalpopolare, di vermouth, e demagogici manifesti i cui punti qualificanti sono l’umano riscatto (cioè tutto e niente) e una generica domanda di giustizia. In siffatte epifanie televisive non è mancato, per gradire, qualche (scontato) rimando a Lacan, mai nominato ma sempre indirettamente tirato in ballo allorché, a torto o a ragione, baleni – in malsane conversazioni da salotto (che si sia o no in uno “spettacolo di conversazione”) - la parola “annientamento”. Nella fattispecie: il trentunenne che sgozza moglie e due figli è talmente sperso, rispetto alla propria identità, che uccide loro perché vuole annientare se stesso, cancellare ogni “errore”per potere – di nuovo – riconoscersi. Doppia non commestibile boutade: per il pubblico “semplice” è quest’ultima, e lo resterà per sempre, una palese forzatura, una sciocchezza alla trentaduesima; per il pubblico “avvertito” è questa – invece – una “verità” talmente acquisita da essere banale, mortificante semplificazione d’una tragedia il cui paradigma è molto complesso e esemplarmente occidentale. Di quest’Occidente malato, giunto alle sue estreme distorsioni, suoi inevitabili tragici approdi. Società consumistiche producono consumatori. Che tali restano non soltanto nei supermercati e negli agognati negozi che vendono merce griffata, ma anche nella vita di relazione: mentre provano a dare un’immagine di sé, mentre lavorano, mentre corteggiano e tentano di sedurre, mentre certificano punto per punto la loro vita sui social network, mentre vagolano tra le mura domestiche. I consumatori cambiano prodotto, uccidono il precedente per dar spazio a quello successivo, più appetibile, più efficace per la propria pelle, per la propria persona, per il nuovo “me stesso” da rifondare ogni giorno. Ogni giorno e ogni giorno, a una velocità vorticosa. La famiglia, qualsiasi famiglia è lenta, qualsiasi amore da costruire è lento, qualsiasi percorso professionale è lento, tutto è lento. Nulla può tenere il passo d’una vita che deve valere tre vite almeno, se non quattro o cinque. Il consumatore è intollerante, cieco di desiderio vero perché “desidera” tutto: s’avvede del compiuto soltanto “dopo” aver ucciso, quando viene risvegliato e chiede – ultimo spettacolino – d’aver inflitta la pena massima (gli sfugge, poveretto, ogni concetto di durata, è drogato di presente…). La nostra, poiché “inesperti”,è soltanto una congettura al di qua della barbarie dei femminicidi – brutto neologismo di questi più brutti devastati tempi –, al di qua dell’approccio psichiatrico – il solo che possa affrontare il “disvalore” aggiunto (la macelleria) –. Il novantanove per cento di noi, per fortuna, non porta il proprio “disagio” ai suoi punti di non ritorno e si muove nel “reversibile”; pure, la gran parte di noi consuma la vita in un’indecorosa apnea, sospeso ogni Valore (e quindi ogni rapporto con la Storia). Drogati, appunto, di presente per negare la morte: non è questo, il consumismo?
Vivere in apnea
drogati di presente
di Alessandro Notarstefano
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