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Silvestri: riscriverei
parola per parola

di Nuccio Anselmo

 

Presidente Gaetano Silvestri, dal 28 giugno lei ha concluso la sua lunga e intensa stagione alla Corte Costituzionale, che ha spesso paragonato a un sarto che rattoppa ma non può realizzare un intero abito. Allora le chiedo un bilancio della sua, diciamo così, “attività sartoriale”.

 

«Sono abbastanza soddisfatto del lavoro che abbiamo fatto, che naturalmente non può essere lineare e geometrico, perché la Corte è composta di quindici persone, tutte ad altissimo livello, che sono portatrici ciascuna di idee, culture e sensibilità molto diverse. Un collegio di quindici persone è molto difficile da governare, per fortuna. E quindi ci possono essere contraddizioni, ci possono essere, a volte, non dico compromessi, ma linee di mediazione, che possono lasciare insoddisfatti. Però, come fanno sempre i giudici supremi in tutto il mondo, si procede per piccoli passi. Credo che, al di là di qualche ritardo, di qualche decisione che può piacere o non piacere, i piccoli passi finora siano andati, almeno nel periodo di nove anni, in cui ci sono stato io, nella direzione giusta».

 

Nella sua ultima relazione lei ha adoperato molte volte la parola equilibrio, poi ha citato anche il contrario, chiaramente facendo riferimento al concetto fondamentale, cioé lo squilibrio. Ecco, nel nostro Paese non crede che più che di equilibrio ci sia molto più “equilibrismo”?

 

«Ogni parola ha il suo peggiorativo. Addirittura anche la parola democrazia può essere peggiorata in democraticismo. Se si deve fare un palo d’illuminazione e si fanno dieci assemblee e venti consultazioni popolari, il palo non si farà mai. È vero: l’equilibrio può diventare equilibrismo. Però questa espressione si usa in genere per le persone che non vogliono prendere decisioni nette ed ha un significato politico. Equilibrio, nel sistema costituzionale, sta invece a significare il giusto rapporto tra i poteri dello Stato e tra gli organi costituzionali; nel senso che un ordinamento come il nostro non tollera che vi sia mai un solo potere sovrano. Tutti i poteri si pongono fra loro in un rapporto circolare, che è un rapporto di equilibrio e di controllo reciproco».

 

E secondo lei nel nostro Paese attualmente vige questa situazione oppure no? Uno dei punti fondamentali della sua relazione è stato per esempio l’eccessivo conflitto Stato-Regioni, su cui lei ha battuto molto, anche nelle recenti esternazioni, poi c'è stata la questione Mancino-Napolitano?

 

«È un conflitto che deriva da una pluralità di cause. Ne elenco solo qualcuna. La principale è una ripartizione per materie fatta non bene. È prevalsa l’idea che le materie abbiano un contenuto essenziale, chissà scritto dove, mentre invece, quando si elencano le materie con delle espressioni verbali, ci sono solo parole e queste devono essere riempite di contenuti. Quando le parole sono mal collocate, come nel caso dell’art. 117 della Costituzione, dopo la novella del 2001, tocca poi alla Corte Costituzionale rattoppare il tutto, allungare e accorciare, per cercare di tenere in equilibrio Stato centrale e autonomie territoriali. Certo, su questo incide anche la situazione delle finanze. In un periodo di crisi, come quella che stiamo attraversando ormai da molti anni, la tendenza è alla centralizzazione, questo è provato dall’analisi economica delle istituzioni».

 

 

 

Lei è stato anche molto critico in questi anni sull’autonomismo siciliano, che è stato adoperato poco e male.

 

«Lo Statuto Siciliano è un documento bellissimo, che si ispirò a un principio federalistico, cioé ad un principio di parità con lo Stato, a quello che gli esperti chiamano modello a matrice, in cui lo Stato non è superiore e non si può parlare nemmeno di rapporto centro-periferia, ma si può parlare soltanto di ambiti di competenza diversi. Lo Stato ha alcune competenze: es. politica estera, difesa, la Regione ne ha altre e poi ci sono gli strumenti di raccordo, ma sempre orizzontali. Così i padri fondatori dell’autonomia siciliana vollero lo Statuto. Però dobbiamo tenere conto che lo Statuto stesso è stato approvato anteriormente alla Costituzione e quindi ha dovuto conciliarsi con la Costituzione. Fu approvato dall’Assemblea costituente praticamente in articulo mortis, alla fine dei lavori. Di conseguenza, le sue norme si sono dovute inserire in un impianto costituzionale complessivo non sempre compatibile con le scelte fatte dai Padri consultori. Un esempio è quello dell’Alta Corte per la Regione Siciliana, prevista quando ancora l’Assemblea costituente non aveva preso la decisione di introdurre la Corte Costituzionale. È chiaro che non potevano esistere due Corti Costituzionali nel nostro ordinamento. Del resto negli Stati Uniti, che è uno stato federale per eccellenza, c’è la Corte Suprema che prevale su tutte le altre Corti».

 

Quindi lei sostanzialmente boccia lo Statuto per la sua mancata attuazione?

 

«Sì. Lo Statuto poteva essere applicato meglio. Purtroppo c’è stato un difetto, gravissimo, ma che ha riguardato anche altre regioni. In Sicilia ha assunto proporzioni gigantesche. I nostri Padri costituenti, se si va a guardare il testo originario dell’articolo 118, avevano previsto la Regione come ente di legislazione e di indirizzo, non di amministrazione. Tant’è vero che nel vecchio articolo 118, improvvidamente modificato, a mio avviso, si diceva che le regioni esercitano normalmente le proprie funzioni amministrative delegandole alle Province, ai Comuni o avvalendosi dei loro uffici. Il disegno era che la Regione non nascesse come un ente di amministrazione, come un ente che avesse un apparato burocratico proprio, ma che fosse un ente, il quale, esaltando l’autonomia dei territori e delle popolazioni, desse leggi e indirizzi a carattere generale per quei territori e quelle popolazioni. Quindi un apparato burocratico-amministrativo ridotto al minimo, proprio per essere servente a queste due funzioni. Il resto doveva andare agli enti locali. Questi ultimi peraltro in Sicilia venivano concepiti come Comuni, l’ente primigenio, come diceva Sturzo, e come liberi consorzi dei Comuni. Era prevista pertanto l’abolizione della Provincia, concepita nello Stato unitario secondo il modello napoleonico, recepito dal Regno di Sardegna».

 

Allora non abbiamo inventato niente con l’abolizione delle Province?

 

«No, lo dice lo Statuto, che parla di liberi consorzi. Purtroppo tutti i tentativi di attuare questa norma statutaria sono andati in direzione sbagliata. Per esempio, si fece una legge, che istituiva le Province regionali, sostanzialmente assimilabili alle Province che c’erano prima. Oggi non le so dire nulla, perché non ci capisco nulla su quello che vogliono fare e si sta facendo, forse per mio difetto di informazione. L’ideale sarebbe che le cosiddette funzioni di area vasta venissero svolte insieme da comuni sulla base di spontanea aggregazione, che non diano luogo a nuovi enti, ma che diano luogo a strumenti predisposti in vista dell’esercizio di una o più funzioni. Supponiamo che un certo numero di comuni si metta d’accordo per costruire strade in un’ area della Sicilia Orientale, costituendo un libero consorzio. Nessuno impedirebbe, al limite, che anche Messina e Catania possano formare un consorzio per esercitare funzioni amministrative di area molto vasta, che ad esempio riguardi gran parte della Sicilia Orientale. La stessa nozione di capoluogo di provincia dovrebbe essere superata. Dovremmo liberarci dall’idea tradizionale della provincia napoleonica, che è stata essenzialmente uno strumento di potere locale dello Stato centrale. Il prefetto ne è l’esempio. Lasciamolo allo Stato il prefetto, perché lo Stato ha bisogno di questi terminali periferici, l’autonomia è un’altra cosa».

 

Sempre nella relazione finale lei ha specificato che la Corte ha velocizzato un po’ i suoi tempi, si è strutturata un po’ meglio e va verso l’informatizzazione. Invece le chiedo: lei come cambierebbe il funzionamento della Corte, non le sembra troppo paludata, troppo lenta?

 

«La Corte non è troppo lenta, ormai decide in meno di un anno. Ed è un organo unico per tutt’Italia. La Corte riceve questioni che provengono dagli organi giudiziari di tutt’Italia, riceve ricorsi da tutte le Regioni contro lo Stato e riceve ricorsi dallo Stato contro tutte le Regioni. Dirime conflitti di attribuzione che, originariamente rari, ora si stanno moltiplicando. Lei ha citato quello del Presidente della Repubblica con la Procura di Palermo, ma tanti altri ce ne sono quotidianamente. Quindi ha una posizione strategica e una grossa massa di lavoro. Nonostante ciò riesce a decidere in meno di un anno. Questo perché ogni giudice ha quello che dovrebbero avere tutti i giudici. I giudici costituzionali sono dei privilegiati, non perché hanno qualcosa che non spetta loro, ma perché hanno qualcosa che dovrebbe spettare a tutti i giudici che invece in questo momento ancora non hanno. Hanno quello che si chiama l’Ufficio del giudice. Ogni giudice ha tre assistenti, che collaborano. Se sono scelti bene, e non per motivi clientelari, danno una mano d’aiuto formidabile per le ricerche. Perché vede, tra l’altro, l’angoscia di stare nella Corte è di essere consapevole di non potere sbagliare. Posso fare una sentenza discutibile, che qualcuno non condivide e perciò la critica. Per carità, siamo in regime di democrazia e ognuno dice quello che pensa. Non posso però citare una norma abrogata, o fare riferimento a una sentenza che non esiste oppure omettere un importante riferimento. Se in Italia si decidesse finalmente di attuare quello che si chiama l’Ufficio del giudice, cioè affiancare a ogni giudice togato un gruppo di persone, che potrebbero essere, per esempio, giovani e brillanti laureati in giurisprudenza, che lo aiutassero nel lavoro, probabilmente si imprimerebbe alla velocità della giustizia un’accelerazione straordinaria. È una cosa che non si è mai voluta fare, perché costa. Ma, come dire, le cose buone si pagano. Però quanto risparmierebbe la società italiana, e poi alla fine anche le casse dello Stato, con una giustizia veloce».

 

Proprio sui giornali di questi giorni, prima di venire qui, leggevo della riforma Renzi. Lei che ne pensa?

 

«Intendiamoci: se lei mi chiede cosa penso di quel decalogo, dico che sono senz’altro d’accordo. Ma sfido chiunque a dire che non è d’accordo. Se mi si dice che si deve fare un processo civile in un anno, vorrei vedere quel pazzo che lo vuole più lungo. Su di noi aleggia l’anima del grande Catalano, se lo ricorda il comico delle trasmissioni di Arbore, prematuramente scomparso?, che diceva: è meglio una moglie bella, intelligente e ricca anziché una brutta, cretina e povera».

 

A proposito dei tempi della giustizia, lei che correttivi darebbe?

 

«C’è stato un grande giurista del passato, si chiamava Giuseppe Chiovenda, grande processualista del ’900, che aveva pensato tre princìpi da applicare sia al processo civile che a quello penale. Sono l’immediatezza, la concentrazione e l’oralità. Questi concetti vengono insegnati agli studenti. Si dovrebbero applicare, traducendoli in norme di dettaglio, norme organizzative, norme strutturali del processo. Per esempio, prendiamone uno: la concentrazione. In base a tale principio che chiunque può vedere, solo che segua un film americano di argomento giudiziario, il processo dovrebbe cominciare e finire senza soluzioni di continuità o con intervalli ridotti al minimo C’è il processo civile tra Tizio e Caio, il giudice alla prima udienza dice “domani si fa la seconda, poi la terza e dopodomani si fa la sentenza”. Lo stesso si dovrebbe dire anche per il processo penale, che naturalmente può durare anche più a lungo perché ci possono essere tanti testimoni. In Italia invece si fa la prima udienza, la seconda viene rinviata a mesi dopo e nella stessa giornata sono iscritti nel ruolo molti processi. Dei tanti processi contenuti nel ruolo di udienza se ne tratta uno o due e gli altri vengono rinviati. Magari ci sono testimoni che sono partiti da lontano per andare lì, i quali, dopo un’attesa di una intera mattinata, vengono congedati, peraltro non sempre in modo educato, mi è capitato personalmente. Questo è il disastro della giustizia italiana. Probabilmente inevitabile nelle condizioni date, ma se si vuole prendere di petto questo problema, occorre avere un governo, una classe politica, che abbia il coraggio di affrontare sia le resistenze dei magistrati, ma ancora di più le resistenze degli avvocati. Perché oggi questo non funzionamento della giustizia è anche responsabilità delle categorie che ci lavorano dentro. In Italia ancora stenta a morire l’idea che le ferrovie servono per i ferrovieri, gli ospedali servono per i medici, le scuole e le università per i professori e la giustizia per giudici e avvocati. Ci dimentichiamo i passeggeri, i malati, gli studenti e le parti del giudizio. E allora è possibile una riforma vera della giustizia? Secondo me è possibile farlo, con queste due cose, i tre principi di Chiovenda, attuati però concretamente nel processo, con norme processuali precise, e l’Ufficio del giudice. Qualcosa che aiuti il giudice, perché oggi un magistrato si deve confrontare con le questioni più varie e con un carico di lavoro enorme:l’Italia è un Paese litigioso per quanto riguarda il processo civile e c’è l’obbligatorietà dell’azione penale, quindi il numero dei processi non viene ridotto in partenza, come succede nei paesi anglosassoni. Il giudice dev’essere aiutato. Sarebbe anche un’occasione per dare un primo di lavoro e per rendere possibile una preziosissima pratica per tanti brillanti laureati. Si potrebbe stabilire, per esempio, che potrebbero accedere, previa pubblica selezione, all’Ufficio del giudice i laureati in giurisprudenza che abbiano una votazione X. La pratica, fatta negli uffici giudiziari potrebbe servire inoltre a chi vuole diventare a sua volta giudice togato, quando affronterà il concorso».

 

Di recente si sono registrate parecchie polemiche sui compensi alti dei giudici della Corte Costituzionale. Lei cosa ne pensa?

 

«Intanto sono stati ridotti, perché c’è stato l’intervento del governo Renzi, che ha stabilito un certo tetto, e la Corte si è adeguata. Ancora ieri un giornalista famoso ha detto alla radio che il presidente della Corte Costituzionale percepisce 650 mila euro all’anno. Non li ha mai percepiti, neanche prima della riduzione. Ribadisco ancora una volta che i compensi dei giudici costituzionali sono determinati, sino all’ultimo euro, dalla legge: Si fa credere invece che siano gli stessi giudici a “decidersi” gli emolumenti, come ha detto una nota conduttrice televisiva, cui la Corte ha inviato una precisazione mai messa in onda. Peraltro bisogna decidere che tipo di Corte Costituzionale si vuole. Non posso fare i nomi, per ovvie ragioni di riservatezza, di giuristi importanti, bravi, affermati, che hanno detto no. Perché? Perché lo stipendio del giudice costituzionale, ancor di più ora che è stato notevolmente ridotto, corrisponde al guadagno di un avvocato medio. Non di un grande avvocato, perché di quello non si parla nemmeno per scherzo. Allora, se vogliamo che la Corte diventi un posto dove c’è un’occasione di impiego, qualsiasi compenso va bene. Se vogliamo che nella Corte vadano persone che, messe sul mercato, avrebbero un altro tipo di valutazione, dobbiamo tenere conto della realtà. E cioé che il travaso di esperienze di giuristi dentro la Corte deve trovare un punto di riferimento nei guadagni medi di avvocati affermati. Conosco avvocati, miei amici, che sono diventati membri della Corte, che hanno perso un sacco di soldi. Si tratta di encomiabili scelte individuali. Dobbiamo inoltre ricordare che l’ufficio del giudice costituzionale è radicalmente incompatibile con qualsiasi esercizio professionale. Se facciamo un paragone tra il giudice costituzionale e il parlamentare, lo stipendio è simile, però l’ufficio del secondo non è incompatibile con l’esercizio della professione. Quindi un avvocato che va a fare il deputato o il senatore percepisce l’indennità parlamentare e può, se vuole, continuare nell’esercizio della professione, come dimostrano notissimi esempi. Tale cumulo per un giudice costituzionale è assolutamente e giustamente vietato».

 

Lei personalmente come si “blinda” con i troppi osanna che si ricevono quando si arriva a un certo livello?

 

«Molti dicono di me che ho un brutto carattere, nel senso che sono abbastanza riservato. Non mi piacciono le passerelle. Ogni tanto, se mi chiamano a fare una lezione, una conferenza sono contento, perché questo è il mio mestiere, il professore. Le altre cose le ho fatte come intermezzi».

 

Intermezzo in senso musicale, perché vedo che ci sono sempre nel suo studio i tre suoi musicisti preferiti?

 

«Bach, Mozart e Beethoven sono i miei numi tutelari. Tornando alla domanda, ci sono osanna e ci sono insulti. Se una lode viene da una persona che lo dice con cognizione di causa e so che non si aspetta niente da me, mi fa piacere... se viene da qualcuno che so che l’indomani mi chiederà qualcosa è chiaro che m’infastidisce. Le critiche, mai gli insulti volgari, a volte sono meritate e a volte no. A questo bisogna rassegnarsi, innanzitutto perché siamo in una democrazia, in secondo luogo perché i cretini ci sono sempre stati e sempre ci saranno. Le calunnie e le dietrologie ormai mi fanno solo sorridere, mentre una volta, più inesperto, mi arrabbiavo».

 

Tra le sentenze, e lei ne ha fatte tante sia da relatore quand’era giudice e poi anche da presidente, ha trattato delle questioni piuttosto complesse. Qual è la sentenza che le ha procurato più soddisfazione sul piano giuridico per la complessità della questione trattata?

 

«Le prime sentenze che mi hanno impegnato fortemente e delle quali sono ancora contento sono quelle che hanno stabilito l’efficacia delle pronunce della Corte europea dei diritti dell’uomo nell’ordinamento italiano. La 348 e la 349 del 2007: la 348 l’ho scritta io, la 349 l’ha scritta il professor Tesauro, tra parentesi anche lui è stato docente nell’Università di Messina, che ha contato nelle sue file tanti illustri giuristi. E poi la successiva 317 del 2009. Sono sentenze che hanno stabilito la portata e i limiti della tutela sovranazionale e internazionale dei diritti fondamentali dell’uomo. Di questo sono abbastanza contento perché abbiamo stabilito da una parte l’ingresso della tutela sovranazionale e internazionale dei diritti anche nell’ordinamento italiano, che prima era chiuso, ma abbiamo stabilito anche dei limiti molto precisi. Attraverso quello che è stato definito, nella mia sentenza, la 317 del 2009, il principio della massima espansione delle garanzie, se confrontiamo la tutela internazionale e quella italiana, la Corte deve dare la preferenza sempre a quella maggiore. Ecco il principio di massima espansione delle garanzie, cui si affianca il principio della tutela sistemica delle garanzie e dei diritti. Un diritto potenzialmente si espande all’infinito, ma finisce per danneggiare altri diritti. Allora la Corte deve avere sempre la preoccupazione di vedere il diritto inserito nel sistema assieme agli altri diritti. In questo senso c’è stata una sofferta decisione, quella sul caso Ilva, in cui appunto la Corte ha dovuto operare un difficile bilanciamento tra il diritto al lavoro e il diritto alla salute».

 

Torno sulla questione Mancino-Napolitano. Di questa sentenza lei è contento, rifarebbe gli stessi passaggi?

 

«Parola per parola. Vede, che in Italia per intercettare un qualsiasi parlamentare ci sia bisogno di autorizzazione e che si possa invece intercettare liberamente il Presidente della Repubblica è una sciocchezza; che si dovessero distruggere quelle intercettazioni casuali, quindi non fatte intenzionalmente per ledere la riservatezza del Presidente, è assolutamente ovvio: se fossero state portate a conoscenza delle parti sarebbero state riportate da tutti i giornali, come continuamente accade. Allora tanto valeva che venissero pubblicizzate subito. Veda, la figura del Presidente della Repubblica - come ci ha insegnato un grande Presidente, il primo della Repubblica Italiana, Luigi Einaudi nel bellissimo libro “Lo scrittoio del Presidente” - si esplica fondamentalmente attraverso la cosiddetta “moral suasion”, cioé con attività informale e necessariamente, in taluni casi, riservata. Essa serve a smussare gli angoli, a creare quell’equilibrio tra i poteri dello Stato che verrebbe necessariamente sconvolto se le fasi intermedie in cui si cerca di creare l’equilibrio venissero immediatamente pubblicizzate. E questo il Presidente lo fa dalla mattina alla sera, quindi non si può distinguere in partenza quando si comporta da privato cittadino e quando si comporta da Presidente. Teniamo conto che la sentenza non ha detto che il Presidente della Repubblica è sottratto alla giurisdizione penale. Egli è soggetto alla giurisdizione penale come ogni altro cittadino. Solo che alcuni mezzi di acquisizione della prova incontrano dei limiti. Del resto in quella sentenza ho citato abbastanza esplicitamente un passaggio di uno scritto del professore Alessandro Pace, il difensore della Procura di Palermo, nel quale diceva di concordare sull’idea che sarebbe assurdo che il Presidente della Repubblica abbia una tutela per quanto riguarda perquisizioni e intercettazioni inferiore a quelle dei parlamentari o dei ministri. E quindi che si deduceva dal sistema che non poteva essere intercettato. Consapevole di avere scritto questo, il professor Pace, persona di grande onestà intellettuale, quand’è venuto in udienza davanti alla Corte, ha detto sì, è vero, io ho scritto così. Però qui si tratta di un’intercettazione casuale, ben diversa da una intercettazione intenzionale. Quindi anche la difesa della Procura di Palermo concordava sul dato di fondo che un’intercettazione diretta e intenzionale delle comunicazioni del Presidente della Repubblica non è possibile. Del resto non c’è in nessuna parte del mondo. Vorrei vedere se mettessero sotto controllo il telefono di Obama, negli Stati Uniti scoppierebbe l’iradiddio. Si trattava però di una distinzione ininfluente nel caso specifico. Faccio un esempio per capirci: può accadere che io casualmente, e del tutto involontariamente, entri in una zona militare, a cui è vietato l’accesso, non me ne accorgo perché non c’era il cartello, perché il cartello era messo in maniera tale da non vedersi bene ecc...; bene, mi scoprono, in tal caso non posso essere sottoposto a sanzione, perché l’ho fatto casualmente e involontariamente nel corso di un’attività lecita, per esempio una passeggiata, un’attività lavorativa ecc...; tuttavia non posso pretendere di restare là e se ho fatto fotografie le devo consegnare. Quello che differisce tra l’intercettazione intenzionale e l’intercettazione casuale e indiretta è il fatto che non è punibile chi l’ha fatta o ordinata, perché ciò è avvenuto nel corso di una intercettazione legittima a carico di un terzo. Tuttavia, se ci sono problemi che attengono alla libertà, se, ad esempio, dall’intercettazione si deduce che Tizio che sta in galera per un delitto in realtà è innocente perché c’è un altro che l’ha commesso, o che il Presidente sta preparando un colpo di Stato, lo scenario cambia... tutta la Costituzione italiana è basata sugli equilibri. A quel punto la bilancia pende dall’altra parte. Mentre sta in equilibrio quando si dice che ci vuole la riservatezza dalle comunicazioni del Presidente, perché serve per i fini, di cui dicevamo prima, quando invece entrano in ballo aspetti così gravi, la bilancia pende da una parte e allora la tutela della riservatezza del Presidente della Repubblica cede rispetto alle esigenze di salvare le istituzioni, di salvare una persona da una indebita restrizione della libertà personale o da un progetto omicida. Bisogna tutelare la libertà e la vita delle persone, l’integrità delle istituzioni repubblicane. Sta al giudice, nella sua coscienza, valutare quali valori vengono messi in pericolo da fatti che si possono dedurre da quelle intercettazioni e procedere di conseguenza».

 

Allora lei le ha lette le intercettazioni? Ce le può raccontare?

 

«Non abbiamo voluto leggere le intercettazioni perché il loro contenuto era irrilevante ai fini della soluzione del conflitto di attribuzione. Però le ha lette il giudice. Dopo la nostra sentenza il giudice per le indagini preliminari di Palermo le ha ascoltate. La Corte gli ha detto: ascoltale e vedi se c’è qualche cosa che possa riguardare i princìpi e i diritti fondamentali prima ricordati. In secondo luogo si deve osservare che, se la Corte avesse acquisito quelle intercettazioni, molto probabilmente qualcun altro le avrebbe rese pubbliche e si sarebbe potuto dire che erano filtrate attraverso la Corte».

 

Lei è tornato a Messina, nella sua città, e quindi ci starà un po’ di più prescindendo dalla sua attività. È stato consigliere comunale per il Partito Comunista 50 anni fa. La sua città è peggiorata, migliorata, come la vede?

 

«Io sono venuto a Messina ma, come sa, sono nato a Patti. La mia famiglia si è trasferita a Messina nel 1948 quando avevo 4 anni, quindi si può dire che sono stato qui dall’asilo all’Università e dopo... tutta la mia vita si è svolta a Messina, quindi io amo questa città. L’ho detto anche in pubblico all’Università nel novembre dell’anno scorso: nel 1994, mi fu proposta la cattedra alla Sapienza e io rifiutai, litigando anche con il mio maestro, Temistocle Martines. Voleva fortemente che io andassi. Quindi premetto, amo questa città profondamente, al punto che, pur avendo trascorso nove anni a Roma, alla Corte Costituzionale, anche nell’ultimo periodo come presidente, son tornato qui. Devo dire che molti amici e colleghi romani mi dicevano “ma sei pazzo, ma dove vai, ma dove ti vai a cacciare, dove ti vai a rinchiudere”, “Messina è la mia città, io vado”, ho detto. E allora proprio per questo amore che ho per la città, quando vado in giro e vedo tante cose mi viene in mente quella famosa poesia di Eduardo De Filippo, dedicata a Napoli, che comincia con le parole «Che ti hanno fatto». Ricordo quando ancora c’erano molti palazzi che dovevano essere ricostruiti perché sventrati dai bombardamenti ecc..., ma la città si avviava a una rinascita ordinata. Era una città, parliamo dei rapporti umani, gentile. Ecco perché la chiamavano la città “babba”, e dovevamo essere orgogliosi di questo titolo. I rapporti umani erano belli, almeno io mi ricordo così. Ora basta circolare in macchina per vedere l’aggressività, l’intolleranza, il disordine, la sporcizia. Io mi dispero ogni volta che vengo. Nell’ultimo anno ho avuto la scorta dei carabinieri, mi è stata imposta e quindi c’erano questi militari che venivano da Roma. Erano esterrefatti per quello che vedevano a Messina. Cumuli di immondizia. Ma perché non si può raccogliere la spazzatura, dico io? Perché a Vicenza, tanto per citare a caso una qualsiasi città, la raccolgono e qua no. Da questo punto di vista sono ignorante, nel senso che non conosco le vicende di MessinAmbiente, sono stato troppo lontano. Ma faccio un’osservazione che può fare qualunque turista e nel mio caso non qualunque turista, ma un messinese innamorato della sua città. Ma perché non la raccogliete questa maledetta spazzatura? Se viene oggi un turista non ci torna più. Io ci sono tornato, ma ci vuole un grande amore e non ce l’hanno tutti. Come tante altre persone che conosco e non ci tornerebbero mai. Mio figlio stesso, che è a Trieste non tornerà più. Viene a trovarmi per le vacanze con la sua famiglia, poi se ne va. Questo comunque non implica alcun giudizio sulle giunte comunali».

 

Ecco, cosa ne pensa della giunta Accorinti?

 

«Io ho smesso di fare politica da molti anni. Quindi un giudizio politico sulla giunta Accorinti non lo posso dare. Posso dare un giudizio sulle persone. Mi sembra un gruppo di persone per bene, animate da grandi e buone intenzioni, che si sono messe al lavoro rimboccandosi le maniche. Quali saranno i risultati ancora non è dato sapere. È chiaro che poi, lei sa come si dice a Messina, “cu mancia fa muddichi”. Che nel fare tante cose possano anche commettere degli errori questo è ovvio. Ma meglio che commettano errori facendo anziché non facendo e limitandosi soltanto a coltivare piccoli clientelismi. Con ciò, ripeto, non posso dare un giudizio sui singoli atti della giunta Accorinti perché non li conosco. Dico, proviamoli. Li abbiamo provati tutti, proviamo anche loro».

 

Presidente lei adesso ha il “dovere” di fare qualcosa per la città di Messina.

 

«Io ho il dovere di stare a Messina e di testimoniare che Messina è una bellissima città. Che si può vivere anche bene. Ma se lei si riferisce a ruoli politici, non se ne parla nemmeno per scherzo. A parte il fatto che è giusto fare largo ai giovani. Io ho 70 anni e quindi posso dire: abbiamo dato. Ho fatto il consigliere comunale 50 anni fa, ho smesso da tempo di fare politica attiva e penso che Messina debba trovare le forze, le competenze in tante sue personalità, giovani e meno giovani, per amministrare bene. Dipende soprattutto dai messinesi, perché quando ci sono dei cattivi amministratori non è colpa solo dei cattivi amministratori. Ma è colpa di chi li ha eletti. Sia quando sono stato eletto rettore, nel 1998, sia quando sono stato eletto giudice costituzionale, qualcuno ha detto che volevo usare queste cariche come trampolino di lancio per fare il sindaco».

 

Anche frutto di un certo retropensiero...

 

«Il pensiero asfittico. Secondo alcuni, la cosa più bella che possa capitare a un essere umano è fare il sindaco di Messina... secondo me invece è un’impresa difficilissima, per la quale non so se sarei adeguato».

 

Lei ovviamente continua ad avere un rapporto molto saldo col mondo accademico, con la sua Università...

 

«Alla mia Università ho dedicato sei anni come rettore, oltre che tutta la vita di docente. Ho fatto il rettore dal 1998 al 2004, un periodo anche questo che ricordo con molta soddisfazione, anche se non sono mancate amarezze. Questo è normale».

 

Ha vissuto molte stagioni, anche quella dell’omicidio Bottari...

 

«Io sono stato rettore dopo. Se devo trarre un bilancio di tutta la mia esperienza all’Università di Messina, la posso riassumere in una frase: “Se si vuole si può”. Abbiamo realizzato una serie di cose. Una nuova facoltà di Ingegneria, che abbiamo costruito nei tempi previsti, senza spendere un euro in più del finanziamento originario e senza che ci siano stati strascichi contenziosi di nessun genere. Abbiamo rimesso in funzione due ruderi, che erano stati abbandonati all’acqua e al vento, che oggi sono la nuova facoltà di Veterinaria e la nuova facoltà di Lettere. Abbiamo ricreato da ruderi ancor peggio combinati la Cittadella sportiva. Quando sono andato a visitare quella che oggi è la Cittadella sportiva, per poco non mi sono messo a piangere. C’erano dei muri diroccati, tutto era abbandonato alle erbacce. Abbiamo fatto anche quello. Il sistema bibliotecario dell’Ateneo, il centro linguistico; a volte mi meraviglio di quante cose abbiamo fatto. Abbiamo ricostruito la storica scalinata del plesso centrale, improvvidamente distrutta. E poi ho fatto un passo che non è piaciuto a molti e che mi ha fatto scatenare la cagnara contro: l’acquisto del Palazzo delle Poste. C’erano altri appetiti su quel palazzo. Io mi sono imputato, sono stato criticatissimo da una parte della città per questa scelta. Oggi mi devono dare ragione, perché il Palazzo delle Poste consente all’Università di risparmiare ingenti somme prima destinate a fitti passivi. E soprattutto non è stato demolito. Ricordo, ero un giovane assistente ed ero anche consigliere comunale, siamo negli anni ’70, quando fu demolito il palazzo dei Gesuiti di Piazza Cairoli. L’Università fece un passo indietro e il Comune si oppose, dicendo che in quel posto non si potevano insediare uffici o facoltà universitarie, perché non c’erano i parcheggi. Poi ci hanno fatto un supermercato, dove ovviamente i parcheggi non ci vogliono…!».

 

Quindi allora... prossimo sindaco no ma prossimo rettore sì? Per il sindaco non c’è nessuna protezione legislativa?

 

«C’è la mia autoprotezione personale, nel senso che non ho alcuna intenzione di presentare una mia candidatura, me lo chiedano o non me lo chiedano Mentre per la carica di rettore è proprio la legge che mi protegge, perché mi mancano i requisiti, in quanto sono in pensione».

 

(intervista registrata il 1. luglio 2014)

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