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UN NORMALE EROE
DI QUESTO MONDO

Umano. Non un dio cinico venuto da galassie remote e potenti, non un superman invincibile, ma un normale eroe di questo mondo. Non c’è, in Vincenzo Nibali, nulla di soprannaturale: le sue entusiasmanti vittorie sono le nostre, nascono da un’alchimia terrestre e antica, che mette insieme la pregiata qualità dei muscoli, l’intelligenza tattica e la capacità di sacrificio – figlia sempre, quest’ultima, di una congenita invulnerabile volontà del carattere –. Un campione d’equilibrio e sobrietà, dedito al ciclismo con applicazione matematica e animo monastico. Il messinese Nibali voleva il Tour e se l’è preso, attentissimo a mostrare la propria forza calibrandone le dosi, molta sostanza e poca vetrina. Così richiede l’anno di grazia 2014: dopo l’era delle sbornie dopanti si è chiamati, per la sopravvivenza dello sport, a riscoprire anzitutto la misura – asserzione valida innanzi a ogni crisi sistemica, come ben sanno la maggior parte degli economisti e, se ce ne sono ancora, i politici veri –. La misura è la realtà, ricolma di limiti e quindi il più delle volte poco inebriante; di tanto in tanto, però, eccezionalmente generosa. Nibali non ha superpoteri, ma soltanto uno straripante talento e ferrea determinazione. Fruttuosa disciplina quando la strada è piana, potenza in salita, innato coraggio e straordinaria armonia nelle discese, la sua specialità. Una vita intera in sella a una bicicletta, tra abnegazione ed empirismo: l’oblio e l’attesa, ovvero l’ineffabile dimenticanza di sé che accompagna una pedalata lunga quanto l’esistenza, il miraggio di mille e un traguardo senza mai risparmiarsi, come si faceva da ragazzini, e – insieme – l’utile strategia, il calcolo, quel che realisticamente va compiuto per vincere la più prestigiosa delle corse a tappe. Sublime, Nibali, quando tra il fango doma il perfido pavé e stacca l’eterno avversario Contador di due minuti e mezzo. “Dantesque” è l’aggettivo scelto dall’Équipe, storico giornale sportivo transalpino, per titolare in copertina: si è assistito a qualcosa di raro e grandioso, la solennità è d’obbligo per raccontare un evento che sconfina nell’epico. Ma pure mostruosamente concreto, Nibali, che in molte gare ha preferito limitarsi a controllare aspettando che arrivassero i rendez-vous sulle montagne francesi: luoghi magici, che sembrano conservare tracce del big bang, dove esibire il potere dello scatto o arrischiare – da campioni – picchiate senza paracadute, persa ogni inibizione, quando si può respirare a pieno la libertà di essere il più forte. È un dono, lo scatto, un’improvvisa strabiliante scarica di elettricità che manda in corto circuito l’intero sistema: il gruppo un vero e proprio organismo vivente, regolato da precise leggi apparentemente mirate a tutelarne il più possibile l’integrità – è smarrito, si scopre effimero, vive lo choc dell’abbandono. Ogni tentativo di fuga è un attentato alla rassicurante compattezza della carovana, che deve con rapidità provare a riorganizzarsi: spesso si sfilaccia, i tempi di reazione non collimano, ogni squadra – mutata la situazione – deve ripensare il suo ruolo e avviare “nuovi” automatismi e liturgie. Si sostanzia, nella bagarre, la magnetica bellezza del ciclismo: pochi eletti che praticano l’arte della fuga, i gregari che si prodigano per il leader. Ebbene, un ulteriore merito di Nibali è quello di aver saputo gestire i compagni dell’Astana come un computer, amministrandone possibilità e debolezze: i suoi exploit tra le vette dei Vosgi, sulle Alpi e sui Pirenei sono frutto, anche, di un ben pianificato lavoro collettivo. Lo scatto in salita è la cifra della vigoria del guerriero, l’allungo in discesa richiede le qualità dell’acrobata, è un miracolo aerodinamico: corpo e bici si fondono, sono un unico proiettile che viaggia a una velocità impensabile, un meraviglioso mix d’equilibrio e di controllo, tra frenate esatte e traiettorie perfette. Nibali ha scoperto l’algoritmo che smaschera ogni insidia, la formula che neutralizza ogni strapiombo: vederlo in azione quando sembra puntare il vuoto è un dono senza pari. Prodigio plastico che, tutte le volte, ci regala lo stupore. Probabilmente avrebbe vinto, Nibali, anche se Contador e Froome, vittime di brutte cadute, non si fossero ritirati. È questa la nostra, non troppo umile, convinzione. A Vincenzo – in maglia gialla – il suo Arc de Triomphe e la gloria sugli Champs-Élysées; al mondo ciclistico l’emozione di riscoprirsi umano.

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