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L’attimo fuggente
di Robin Williams

C’è sempre stato, dietro l’irresistibile sorriso di Robin Williams, un fondo oscuro. Percepiamo, nelle sue più riuscite prove d’attore, come un’inquietante sfocatura, lì nel più profondo dove nessuno sguardo potrà mai davvero arrivare: c’è sempre la stessa raggelante opacità che – smarrito ogni brillio – rimanda ai nostri occhi di spettatori e all’anima un che di ancestrale, qualcosa che (nell’intimo) pure a noi appartiene. Quel che è perennemente sospeso tra l’angelo e il demone, torbidi e puri – come ci capita d’essere – in questo o qualsiasi altro fuggente attimo della nostra trascurabile vita. Doppi perché così programmati da madre capricciosa natura, idea non originale ma che dà accesso a un’efficace formula di sopravvivenza. Folletti dispensatori di divertimento o satiri capaci di inimmaginabili crudeltà. Mai, però, del tutto innocenti, mai del tutto colpevoli.

Quando Will Hunting (Matt Damon) scova il nervo scoperto dello psicologo Sean Mac Guire (Robin Williams, Oscar 1998 come miglior attore non protagonista), ovvero la moglie perduta e innominabile, vagheggiata, che ancora e soltanto “vive” in un dipinto dov’è raffigurata una barca in un mare tempestoso, quando il ragazzo geniale e esemplarmente problematico Will Hunting, matematico malgré lui, s’avvicina al profondo del suo confessore-redentore, ecco che quest’ultimo perde la testa. La sensazione è che, come lo psicologo del film di Gus Van Sant, Robin Williams non gradisse d’esser messo a nudo: i suoi migliori personaggi sono quelli che – complice il doppiaggio caldo e fibroso di Carlo Valli – non si danno completamente, si riservano anzi una zona franca, quella da cui attingono la loro forza, positiva (rammentiamo “L’attimo fuggente” e, appunto, “Will Hunting - Genio ribelle”) o negativa (“One Hour Photo”, “Insomnia”, film in cui Williams è addirittura un serial killer).

In una commedia (“Mrs Doubtfire”) la natura camaleontica dell’attore americano può addirittura mostrarsi in forma esplosiva: identità maschile e femminile si confondono in un turbinio esilarante, ce la spassiamo innanzi al perseverare del segreto. Ancora una volta una natura doppia, stavolta – però – messa clamorosamente in scena.

Ma, nel mondo “reale”, tutto deve avere un nome; e alla fine ne ha uno solo, ultimativo. La morte, in alcuni di noi, cresce con malagrazia ma cresce, ogni giorno, fin da quando s’approda all’età della “ragione”: abita la mente, colonizza ogni piega del corpo, soprattutto offusca ogni relazione, gela il cuore. Si muore “per droga”, come Philip Seymour Hoffman, o “schiavi dell’alcol”, come Robin Williams, che si è impiccato. Ma in “realtà” si muore perché “gravemente depressi”, perché ineluttabilmente soli. C’entrano poco i saliscendi del successo, idolo di cartapesta, o le comuni frustrazioni (avversità lavorative, debiti...). C’entra molto, invece, “a prescindere da tutto”, l’incapacità di vivere, l’impossibilità di continuare all’infinito con il gioco del doppio (si chiami letteratura, cinema, o semplicemente menzogna): all’orizzonte soltanto noi al cospetto dell’assurdo. Che è, per i non credenti, il dover morire: comunque tra poco, tra troppo poco

Addio, “capitano”!  

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