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Se anche il Giappone
perde colpi…

                                                                                                
di Piero Orteca

 Giappone? Fa rima con recessione. Cioè col risultato della terapia di “austerità” applicata all’economia in crisi. Cura che ha finito per ammazzare l’ammalato e che è stata prescritta, senza guardare ai punti di equilibrio, da una serie di vecchi tromboni, di asini patentati o, quello che è peggio, di economisti che hanno venduto l’anima al diavolo (in pratica, alle grandi banche). Una categoria, di politicanti e di “specialisti” del piffero, che abbonda soprattutto in Europa e che è già stata sonoramente bocciata dal Nobel Paul Krugman (mica dal figlio di Peppe il lattaio) il quale l’ha definita “congrega di palloni gonfiati”. Punto. Ora, il Giappone, onusto di glorie e di allori (e forse proprio per quello) è una delle metafore di come non si esca dalla crisi copiando le vecchie ricette, quelle che andavano bene, forse, al tempo in cui Berta filava. Oggi il mondo globalizzato è talmente complicato da esigere risposte “flessibili” e innovative, che non si trovano certo nei vecchi testi di teoria economica, ormai seppelliti dalla polvere del tempo e pieni di ragnatele. I professoroni se ne stiano quindi a cuocere a bagnomaria e lascino spazio ai giovani, a quei ricercatori, cioè, che alla “complessità” e alle “dinamiche non lineari” danno del tu. In politica si può mentire, spudoratamente. E infatti l’empireo della democrazia è strapieno di volgari parasacchi. Ma in economia i giochi di prestigio riescono maluccio, e chi li tenta rischia di imbrogliarsi le mani e di venire immediatamente additato al pubblico ludibrio. Il motivo? Semplicissimo. I numeri non mentono, sono tanti macigni o, meglio, tante palle di ferro attaccate con le catene ai piedi degli imbroglioni di turno. Ergo: fidatevi solo delle cifre e lasciate perdere i parolai, capaci solo di promettere e di non mantenere. Si parlava del Sol Levante, che ieri splendeva per crescita ed efficienza e oggi, invece, è oscurato da nubi nere come la pece. Un’analisi comparativa con le altre vittime della pandemia finanziaria ci aiuterà a capire come mai l’America stia uscendo (bene) dalla crisi, il Giappone si sia ritrovato a testa sotto e l’Europa resti “in miezz’a via”, come direbbero a Napoli. Nell’ultimo quarto analizzato (maggio-agosto) il Prodotto interno lordo degli Stati Uniti è cresciuto del 3,8%, quello medio dell’Area Euro di un miserrimo 0,3% (ma Germania -0,6% e, addirittura, Italia -0,7%) mentre il Giappone ha fatto registrare un catastrofico -7,1%, che per i nipponici equivale all’asteroide che sterminò i dinosauri. La Produzione industriale, cioè l’altro parametro che fotografa i malesseri di un sistema economico, in Usa è cresciuta del 4,3%, nell’Area Euro dello 0,7% e in Giappone, dove tradizionalmente questo dato era un punto di forza, solo dello 0,8%. Ma qui, rispetto all’Europa, va fatto un segno con la matita rossa: la media viene alzata da alcuni Paesi più piccoli e meno significativi. Mentre la Francia è all’ospedale (-0,1%) e la Germania al pronto soccorso (-0,8%), l’Italia è già bella e sistemata all’obitorio (con un -2,9%). Stesso discorso per il deficit su Pil, il famoso “parametro” di Maastricht andato di traverso a molti, nel Vecchio Continente. Gli americani lo hanno contenuto (-2,8%), quasi lo stesso valore dell’Area Euro (-2,6%), ma a Tokyo il trend ha preso una brutta piega (-8%), proprio perché il governo di Shinzo Abe ha messo in moto la Croce Rossa finanziaria dello Stato per soccorrere un’economia in catalessi e ha allargato a dismisura i cordoni della borsa. E così, quello che fino al 2010 era un trend virtuoso (+3,6%), oggi è diventato un pozzo senza fondo. Facendo quattro conti e qualche piccola riflessione da abbecedario dell’economia, diremmo che il Giappone, mettendo a confronto i parametri di cui abbiamo parlato e aggiungendoci un vertiginoso aumento dell’inflazione (da zero a + 3,6% in qualche mese) si trova nel pericoloso limbo della “stagflazione”, cioè di una sindrome dove l’aumento dei prezzi è accompagnato dalla stagnazione. Anzi, nel caso specifico, da una recessione conclamata e annunciata con le trombe. Certo, la disoccupazione è ancora bassa (3,6%), specie se confrontata con i numeri europei (11,5%), ma l’economia non ne vuole sapere di ripartire e il premier Abe comincia a traballare sotto i colpi di maglio della crisi. Tutto questo mentre gli odiatissimi concorrenti cinesi, rimasti “comunisti” solo sulla carta ma, in pratica, ferventi adoratori del capitalismo di Stato, galoppano con tassi di sviluppo e indicatori assortiti tali da far venire un doppio travaso di bile ai cugini nipponici. Questa abbuffata di numeri ci dice una cosa soltanto: gli approcci finanziari delle rispettive banche centrali hanno fatto la differenza. Così la Banca del Giappone ha fatto lo stesso (grave) errore commesso dalla BCE, la Banca Centrale Europea, per lunga pezza, cioè almeno fino a quando Draghi non è riuscito a smarcarsi dalla psicopatologia tedesca sull’inflazione. Entrambe le istituzioni finanziarie hanno tenuto i tassi troppo alti, mentre la Federal Reserve americana viaggiava seguendo la filosofia opposta. Risultato: oggi gli Stati Uniti crescono e migliorano i loro parametri economici, gli europei zompano di qua e di là, combattendo la crisi con alterne fortune e utilizzando strategie a macchie di leopardo, mentre il Giappone si è caricato sulle spalle tutta l’inflazione che non aveva prima. In cambio non riesce più a vendere manco un paio di mutande o un set di padelle. Insomma, più di qualcosa dev’essere rivisto, o il Sol Levante correrà il rischio di essere invaso, se non dai cinesi quantomeno dal caravanserraglio dei loro prodotti. E così a Pechino si prenderanno una bella rivincita sulla storia, perché questa volta sarà la Manciuria a “occupare” il Giappone. D’altro canto, per ritornare alle cifre, la differenze tra i due Paesi, nell’ultimo quarto, sono state impressionanti, al limite dell’allucinazione. Ben 15 punti di differenza (a favore dei cinesi, è ovvio) per quanto riguarda il Prodotto interno lordo. E l’Europa? Inutile farsi illusioni, tutto andrà come prima. I politicanti continueranno a parare i sacchi all’impiedi e la crisi resterà acuta. Unica consolazione, i numeri dell’economia: secchi, lapidari e senza aggettivi per indorare la pillola, sbugiarderanno impietosamente tutti quanti, imbroglioni e creduloni. Insomma, parafrasando Remarque e Milestone, è proprio il caso di dire “all’Ovest niente di nuovo.  

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