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Obama rimescola
ancora le carte

                                                                                                    di Piero Orteca

 Obama perde pezzi. Il Ministro della Difesa, il repubblicano Chuck Hagel, ha lasciato la compagnia (in realtà è stato “dimissionato” d’autorità) dopo gli ultimi “infortuni”, chiamiamoli così, in Medio Oriente e, più in particolare, dopo la lunga serie di scoppoloni, mollati sulle guance del presidente dall’Islamic State del “Califfo” al-Baghdadi, tra Irak e Siria. Spifferi di corridoio riferiscono di un’Obama letteralmente imbufalito all’indomani della sonora sconfitta nelle elezioni di “Mid-term”, che hanno consegnato le chiavi del Congresso nelle mani dei repubblicani. I suoi analisti gli hanno riferito che questa volta, nella Caporetto democratica, hanno pesato tantissimo i fallimenti in politica estera (John Kerry, Dipartimento di Stato) e quelli di strategia militare (appunto Hagel, al Pentagono). I più informati parlano di una replica, non tanto riveduta e “corretta”, di quello che capitò quattro anni fa a Robert Gates, l’allora Ministro della Difesa costretto ad andarsene a metà mandato. Qualche tempo fa, dopo aver bagnato il pennino nel curaro, Gates ha chiarito, nel suo libro di memorie, quello che pensava di Obama e della sua Amministrazione. Nel volume, “Duty: Memoirs of a Secretary at War” (“Il dovere: memorie di un Ministro in Guerra”, edito da Knopf), Gates dipinge il presidente come una specie di pupo, capace di ordinare una cosa e di pensarne un’altra. Un comandante in capo che, in Afghanistan (e in Irak), mentre i soldati Usa crepavano a migliaia, avrebbe semplicemente applicato una “dottrina” ( v e cchia quanto il mondo e diffusa tra i politicanti) da “armiamoci e partite”. E chi si è visto si è visto. A Bob Woodward, il giornalista dello scandalo Watergate, è arrivata in anticipo una copia del laterizio (che “pesa” 640 pagine), mentre il Wall Street Journal ha addirittura pubblicato parte di un capitolo da cui, guarda caso, Obama esce “viola” come una melanzana. In particolare, Gates si è tolto dalla scarpe sassolini e chiodi a tre punte, che evidentemente si portava appresso da quando aveva lasciato il Pentagono sbattendo la porta. Ora la sto ria si ripete. O quasi. Anche perché Hagel, il nuovo agnello sacrificale, non ha ancora pubblicato le sue memorie e, soprattutto, ha abbandonato con molto sussiego e senza strepiti. Certo è, a detta di chi conosce le (non tanto) segrete stanze della Casa Bianca, che lo Studio Ovale sembra ormai diventato un incrocio del centro di Napoli all’ora di punta: tra chi entra e chi esce, tra quelli che strombazzano, pigliano appunti o scaricano sul tavolo del presidente tonnellate di carte (e di “c o n s igli”) non si capisce più il resto di niente. Insomma, ci vorrebbe un reggimento di vigili urbani e anche uno stock di semafori per regolare il traffico. Risultato: il Titanic Usa arranca come un caicco in un oceano di guai, in attesa di pigliare l’iceberg giusto. Troppi “adviser”, troppe scuole di pensiero diplomatico, troppi “strategist” d e lla prima (e dell’ultima) ora circondano il presidente e lo tirano per la giacca. In una situazione di questo tipo, però, le sue mitiche doti di mediatore si squagliano come un gelato nel microonde. Così, tentando di ascoltare la platea dei “consiglieri”, Obama finisce per non ascoltare più manco se stesso. O, tuttalpiù, a turno, arriva a dare ragione a ognuno, cambiando, un giorno sì e l’a ltro pure, gli indirizzi di politica estera. Nel caso specifico, pare che Hagel fosse arrivato già ai ferri corti con Susan Rice (Consigliere per la Sicurezza Nazionale) e che non avesse rapporti idilliaci né con Kerry, al Dipartimento di Stato, né con Denis McDonough, il potentissimo capo dello staff alla Casa Bianca. Il New York Times rivela che Obama, per uscire dal ginepraio, avrebbe anche preso in esame la possibilità di un “r e s h u ffling” (rimpasto) più ampio, tagliando, oltre alla testa di Hagel, anche l’erba sotto i piedi agli altri tre. Ma poi, riferiscono i “bene informati”, a una rivoluzione alla Robespierre ha preferito una più italica “r i f o rma”, sacrificando il pesce più piccolo, nella speranza di spegnere la marea montante di critiche che stanno strapazzando la sua politica estera. In particolare, si dice che Hagel avrebbe provato a “stanare” Obama per fargli chiarire la sua posizione sulla Siria (che ufficialmente resta avvolta dai fumogeni), sul presidente Bashar al-Assad e, last but not least, sull’Iran. Gli ayatollah, ex mortali nemici, sono diventati, nel frattempo, “compagni di merende” degli Stati Uniti, senza che questi ultimi (finora) ne abbiano tratto un concreto giovamento. Anche perché i negoziati sul nucleare sono andati a ramengo e tutti, ma proprio tutti, cercano di allungare il brodo per salvare la faccia. L’unico risultato visibile delle capriole e dei tuffi carpiati diplomatici azzardati dagli americani è la crescente inimicizia tra sunniti e sciiti, in tutta la regione che va dal Libano al Golfo Persico e che potrebbe sfociare in una guerra mondiale religiosa nel cuore dell’Islam. Altre fonti parlano di una caratteriale debolezza di Hagel nell’eseguire (sul terreno militare) le direttive di politica estera del presidente, tanto che quest’ultimo, negli ultimi mesi, lo avrebbe praticamente esautorato, scegliendo come punto di riferimento Martin Dempsey, il capo di Stato maggiore. Un generale a tante stelle che, agli occhi di Obama, ha avuto il grande merito di suonare per primo la sirena d’a l l a rme sui pericoli in arrivo dall’Islamic State, in Irak e in Siria. Resta il fatto, dicono in molti al Pentagono, che Obama vorrebbe fare le nozze con i fichi secchi, tagliando il bilancio della Difesa e, contemporaneamente, auspicando una stabilizzazione (quasi impossibile) in Afghanistan e nell’area siro-irakena. Per non parlare della Libia e delle altre rovine fumanti lasciate dalle varie “Primavere arabe”. Una penultima cosa: pare che uno degli attriti tra Hagel e i “boss” attorno a Obama nascesse dalla sua opposizione alle scarcerazioni “facili” da Guantanamo e da altre prigioni. Auspicate, invece dall’ala più “liberal” degli adviser che affollano poltrone, sedie e strapuntini alla Casa Bianca. L’ultima cosa? For the record e a futura memoria, forse non molti sanno che Abu Bakr al-Baghdadi, il “Califfo” che sta facendo venire i sudori freddi a mezzo mondo, dai deserti della Mesopotamia fino a Washington, passando per il Vaticano, era prigioniero degli americani. Forse non proprio a Guantanamo, ma (sembra) a Camp Bucca, in Irak. Cambia poco. Poi Obama ha deciso di farlo liberare con tante scuse, dandosi un bel colpo di zappone sui piedi. E la storia del Medio Oriente è cambiata. 

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