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Medio Oriente, il business dei sequestri

                                                                                                 di Piero Orteca

Anche tra i fondamentalisti islamici più “duri e puri”, stringi stringi, la lite è sempre per la coperta. Si scrive “jihad”, ma, sotto la vernice dell’intransigenza religiosa, si legge, a caratteri cubitali, la parola “dollari”. A milioni. A cominciare dagli introiti che arrivano dai sequestri di persona: in Medio Oriente milizie assortite, tagliagole, rivoltosi “idealisti” e volgari briganti da strada hanno scoperto un modo assai comodo per fare soldi, incatenando il primo occidentale che gli capita a tiro e poi chiedendo al relativo governo di provenienza di pagare un lauto riscatto. Pena la testa dell’ostaggio. Anche se, a guardare con la lente d’ingrandimento la questione (che esiste da tempo, ma che si è aggravata dopo la miriade di guerre e guerriglie “civili” e tribali, seguite alle diverse “Primavere arabe”) vanno fatti numerosi distinguo. E sì, perché, come appare sempre più ovvio, ci sono sequestrati e sequestrati e, per la proprietà transitiva, sequestratori e sequestratori. Insomma, un vero guazzabuglio di eccezioni che, nel caso specifico, non solo non confermano alcuna regola, ma, anzi, contribuiscono a intorbidire irrimediabilmente tutti gli scenari diplomatici del pantano mediorientale. Il problema principale è che, quando ti rapiscono un compatriota in quelle lontane e pericolosissime contrade, semplicemente non sai con chi trattare. A confronto, la Barbagia sarda faceva la figura dell’Università del sequestro. In Medio Oriente, invece, come tante palline da flipper, gli ostaggi fanno il giro delle sette chiese (pardon, delle sette moschee) passando di mano in mano tra i diversi gruppi di predoni, finendo poi per arrivare alle “centrali” del fondamentalismo ufficiale: al Qaida o le milizie islamiche del “Califfato”. I banditi travestiti da jihadisti non fanno il lavoro sporco “a gratis”, ma si fanno pagare in anticipo il disturbo da chi poi prende in carico , come in un macabro gioco di scatole cinesi, gli ostaggi. A ogni passaggio cresce l’ammontare finale del riscatto, che poi verrà richiesto dall’ultimo interlocutore ai diversi governi occidentali (ma non solo) attraverso la disperata mediazione dei sempre più frastornati servizi segreti, incaricati di trattare. Magari tirando sul prezzo. Esistono tonnellate di “report” elaborati dagli analisti, che descrivono minuziosamente tutti questi rabbrividenti scenari. Prendiamo il caso di Greta Ramelli e Vanessa Marzullo, le due cooperanti italiane sequestrate la scorsa estate e recentemente ricomparse, intabarrate col “chador”, in un video diffuso su “You Tube”. Le ragazze, smagrite e prostrate, mostrano in un cartello la data (presunta) del messaggio audio: lo scorso 17 dicembre. Al di là di tutte le giustificate preoccupazioni sulla loro sorte, paradossalmente l’unica “buona” notizia, contrariamente a quanto pensano alcuni, è che sono (o almeno, così pare) nelle mani di al Nusra, cioè la filiale siriana di al Qaida, e non in quelle del “Califfo” (Islamic State). La differenza è sostanziale, perché con le milizie qaidiste, rivali-concorrenti dell’IS, dovrebbe essere più facile trattare. È solo questione di prezzo. A chi parla di sostegno italiano a raid aerei contro le brigate di al Nusra (acerrime nemiche del presidente Assad, tanto per farvi capire come si sia girata la frittata), rispondiamo che, in questo momento, la priorità assoluta sono i bombardamenti contro il “Califfo”. Concentrarsi (eventualmente) contro al Nusra serve a poco, se non a favorire soltanto il governo di Damasco. Anche se, inutile nascondere il sole con la rete, gli americani, l’Occidente e Assad sono di fatto diventati compari d’anello. Quindi (forse) qualche “favore” al presidente siriano non è da escludere. Diversa e più pesante la situazione che riguarda Padre Dall’Oglio. Notizie incontrollate dicono che il religioso sarebbe nelle mani dei tagliagole del “Califfo”, dalle parti di Raqqah. D’altro canto ogni caso fa storia a sé. Come quello del pilota giordano abbattuto e già ucciso per inviare un monito agli altri aviatori arabi della coalizione. In un’inchiesta pubblicata mesi or sono dal New York Times, viene descritto minuziosamente tutto il protocollo utilizzato da jihadisti per il business dei sequestri, definito “phenomenon of the hostage black market”, cioè il mercato nero degli ostaggi. Al Qaida, a partire dal 2008, sarebbe riuscita a raggranellare qualcosa come 125 milioni di dollari. Quello del “black market” è un sistema già abbondantemente collaudato nello Yemen dagli uomini di AQAP (Al Qaida in Arabian Peninsula), che trattano ostaggi sequestrati da bande di predoni. Loro li prendono in carico e impiegano le loro strutture per avviare il mercanteggiamento semi-diplomatico con i servizi di sicurezza dei vari Paesi interessati. Diverso il discorso per l’IS del “Califfo”, che preferisce mettere le mani sugli ostaggi direttamente, senza intermediari, come sostiene Peter Bouckaert, dello Human Rights Watch. Anche se il caso del giornalista Steven Sotloff, decapitato dall’IS, ha sollevato molti dubbi, in quanto “rumors”, poi decisamente smentiti dal Dipartimento di Stato, parlavano addirittura del coinvolgimento diretto di ribelli anti-Assad sostenuti dagli americani. Sarebbero stati loro a servire su un piatto d’argento Sotloff ai miliziani del “Califfato”. Più probabilmente, l’IS ha creato una fitta rete di spie e di informatori capaci di infiltrare tutti gli altri gruppi di ribelli anti-Assad (compreso quello di al Nusra) incaricati di girare poi i riferimenti per sequestri “mirati”. Anche qui però, a conferma della generale confusione che regna sull’argomento, le voci si contraddicono. È risaputo che al Nusra e l’IS hanno rotto nello scorso febbraio. Ma alcuni spifferi di corridoio riferiscono di un possibile parziale riavvicinamento dopo che gli Stati Uniti hanno, in pratica e senza tanti giri di parole, preso le parti di Assad. Comunque sia, le “tariffe” particolarmente appetibili (circa 10 milioni di dollari per ogni riscatto) avrebbero indotto anche il “Califfo” ad adottare il “protocollo” di al Qaida, convincendolo ad acquistare sequestrati “all’ingrosso”. Anche perché il business rende, con alcuni Paesi in particolare. Nel 2014 il “Califfato” ha deciso di rilasciare una quindicina di ostaggi in cambio di una congrua remunerazione. La Francia, per riavere quattro prigionieri, avrebbe pagato poco meno di 20 milioni di dollari e anche la Germania avrebbe versato il suo “obolo”. Obama, invece, non ne vuol sapere. E dopo che il Segretario di Stato John Kerry ha comunicato, urbi et orbi, la sua decisione (di non pagare) le teste degli americani hanno cominciato a cadere. Come quella del povero Foley, per il quale i barbudos di al Baghdadi pretendevano l’astronomica cifra di 132 milioni di dollari. Va comunque precisato che, occidentali a parte, le milizie dell’IS sequestrano abbondantemente anche semplici cittadini siriani e irakeni, per poi chiedere un riscatto, anche modesto, alle rispettive tribù di provenienza. Le ultime notizie parlano del rapimento, nella località di Shajra, a sud di Kirkuk, di circa 160 membri della tribù dei Jabbur. In fondo, per il “Califfo”, tutto fa brodo.

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