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In crisi l’alleanza
sunnita anti-Iran

                                                                                                 

di Piero Orteca 

Eravamo rimasti alla guerra civile nello Yemen, per molti occidentali incomprensibile. Più concretamente, il conflitto è una sanguinosa faida religiosa nel cuore dell’Islam, tra sunniti e sciiti. La crisi, classificata come “locale”, ne maschera un’altra, sull’orlo di esplodere: una bella guerra generalizzata tra Arabia Saudita e Iran, che già cova da lunga pezza sotto la cenere e che rischia di divampare da un giorno all’altro. Nel mazzo, poi, metteteci pure l’Egitto. Da quando El-Sisi, con un colpo di Stato e alla faccia della democrazia, ha messo in galera i regolari vincitori delle elezioni (i Fratelli Musulmani di Morsi) gli eredi dei faraoni si sono stretti ai loro cugini sauditi contro la minaccia, non solo nucleare, iraniano-sciita. Obama si è invece scelto come compari d’anello proprio gli ayatollah, litigando col premier israeliano Netanyahu e cercando di scavargli la fossa sotto i piedi alle recenti elezioni. A completare il quadretto, un altro convitato di pietra: il Pakistan, Paese “super-sunnita” pieno di bombe atomiche, generosamente finanziato dai petrodollari sauditi. Ebbene, la notizia è che al primo refolo di vento la coalizione che dovrebbe fronteggiare gli ayatollah si è sciolta come un ghiacciolo nel microonde. Privatamente, gli sceicchi di Riad sparano a zero sui loro compagni di strada e dimostrano di avere un diavolo per capello. I leader sauditi accusano il premier pakistano, Nawaz Sharif, di avere giocato con due mazzi di carte e di averli “accoltellati alla schiena”, rifiutandosi di onorare l’impegno preso per lo Yemen, cioè quello di spedire battaglioni e reggimenti a mettere il sale sulla coda ai ribelli sciiti. È vero, non esiste uno straccio di carta scritta sul patto di difesa tra i due Paesi, ma risulta a tutti che siano invece leggibili le banconote verdi a tanti zeri (decine di miliardi di dollari, a partire dal 2001), che sono miracolosamente volate nelle casse di Islamabad. Insomma, l’Arabia Saudita paga profumatamente l’amicizia col Pakistan e, in cambio, al primo fischio, pretenderebbe di vedere i fatti. Invece, niente. Eppure Sharif è stato “ospite” (in esilio) per sette anni dei sauditi, aiutato, foraggiato e rispedito a casa (al potere) nel 2013. Evidentemente, dicono a Riad, la gratitudine non è di questo mondo. O, forse, sotto sotto, qualche manina allungata da Washington (indirizzo: Pennsylvania Avenue 1600, Casa Bianca) ha fatto girare pupi e tavolini, in modo tale da convincere a frenare anche i più “duri e puri” tra i sunniti pakistani. Sunniti che, però, avevano solennemente promesso di guardare le spalle agli sceicchi di Riad, vigilando ai confini delle province meridionali di Assir e Najran, per impedire infiltrazioni di ribelli sciiti. Invece, più che l’amor potè il digiuno. Pare (la lite è sempre per la coperta) che Sharif si sia fatto convincere da una generosa “donazione” di Pechino, che lo avrebbe portato a collaborare con gli iraniani per la costruzione di un gasdotto da realizzare a tre, proprio con gli ayatollah. I meno attaccati alla lira, però, dicono che a causare il giro di valzer pakistano sia stato l’accordo sul nucleare con Teheran raggiunto in Svizzera al 5+1, con americani e russi in testa. Insomma, per il Pakistan, se Parigi val bene una messa (parafrasando Enrico IV di Navarra) forse una montagna di dollari e uno schierarsi con le principali potenze val bene un abbraccio con gli ayatollah. O no? Ora per i sauditi, che avevano puntato molto delle loro fiches proprio su un sistema  di alleanze che potremmo definire “collaterale”, si aprono scenari strategici (e tattici) di ridimensionamento. Lungi dall’essere promossa come “potenza leader del Golfo”, l’Arabia si appresta a ritornare dietro la lavagna dei reietti, nonostante i miliardi sborsati per il programma atomico pakistano e per lo sviluppo dei suoi missili balistici. Aggiungiamoci un altro interrogativo “di sostanza”. I cinesi forniranno i missili promessi ai sauditi o, per salvaguardare le buone relazioni con l’Iran, faranno anche loro il salto della quaglia? A questo punto, afferma qualche analista, visto che la diplomazia e le relazioni internazionali sembrano diventate come una mano di zecchinetto, vuoi vedere che l’Arabia Saudita si rivolgerà a Putin o, “summa malitia” (è il caso di dirlo), addirittura agli ex odiatissimi nemici israeliani? Per inciso, dopo che la Russia ha deciso di fornire i missili S-300 agli iraniani, gli Stati sunniti del Golfo sono rimasti in mutande. I loro aerei da combattimento non hanno equipaggiamenti elettronici in grado di tenere testa ai nuovo ordigni in mano agli ayatollah. Rivolgersi ai francesi è tempo perso, visto quello che hanno combinato in Libia e dintorni: si sparerebbero sui piedi. Con Gerusalemme, invece, ogni opzione potrebbe essere aperta, anche se allo stato attuale la collaborazione resta ancora confinata nel campo dell’intelligence. Resta l’Egitto, che per la verità qualche aiutino l’ha dato. Ma mandare truppe di terra… campa cavallo. Il presidente Abdel-Fatteh El Sisi è un militare e non ama i contorsionismi, come quelli di Sharif. Per cui è stato corto e netto: soldati egiziani nello Yemen? Manco per idea. Almeno fino a quando la stessa Arabia Saudita (che evidentemente vuole prendere le castagne dal fuoco con le mani degli altri) non si sarà decisa a mandare i suoi. Anche qui, in sottofondo, sul bancone di marmo, tintinnano dollari d’oro e d’argento. Qualcuno pensa che, come nei film western, Washington (Obama rema contro) e Riad stiano allungando sacchi pieni di monete aprendo un’asta tra i cow-boys da reclutare per acchiappare i banditi. Che in questo caso sarebbero gli sciiti. Casa Bianca e Dipartimento di Stato hanno puntato pure l’osso del collo sull’accordo con l’Iran, anche a costo di rivedere profondamente (lo stanno già facendo) la loro politica col resto dei Paesi sunniti della regione. Oggi come oggi i ribelli sciiti Houthi, spalleggiati da Teheran, hanno preso la capitale San’a e circondano il porto di Aden. Cosa che permetterebbe, indirettamente, agli iraniani di controllare l’ingresso al Mar Rosso e la strada per Suez. Ecco perché la Marina egiziana si è mobilitata ed ecco anche perché i sauditi hanno ammassato un esercito di soldati (150 mila?) ai confini con lo Yemen, minacciando di invaderlo. Ma tutti quelli coinvolti nel fronte sunnita, Giordania, Sudan, Marocco, Emirati e pakistani si stanno squagliando. A questo punto non ci sorprenderemmo se, lanciando una sorta di messaggio trasversale agli infedeli alleati e all’Occidente in generale, i sauditi dicessero qualche parolina nell’orecchio al “Califfo”. Con un patto di quella portata diventerebbe, di colpo, tutto chiaro. Anzi, bianco: dai capelli di Obama alle barbe degli ayatollah.

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