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La madre e la (so)stanza
del figlio

di Franco Cicero

Uno sguardo consapevole e sereno a tutto ciò che cambia

Rompere gli schemi («almeno uno, uno su duecento», dice il fratello alla protagonista Margherita), uscire dalla finzione («ridatemi la realtà», esclama l’attore del film nel film), continuare a credere nel futuro. Sono tante le sollecitazioni stimolanti che giungono da "Mia madre", il nuovo film di Nanni Moretti che rappresenterà l’Italia a Cannes. Non più «splendido quarantenne» ma ormai consapevole sessantunenne, Moretti non azzarda risposte sul presente. Nemmeno con la beffarda spocchia autoiroinica che lo ha reso proverbiale. Anzi, sarebbe bello trovare davvero una risposta sintetica e vincente a un quesito disarmante. «A che serve il latino?», chiede infatti la figlia della protagonista. E gli adulti le replicano bofonchiando frasi di circostanza che un tempo sarebbero state esemplari, ma ora non appaiono immediatamente convincenti. Eppure, proprio sul latino, la madre che dà il titolo al film aveva costruito la sua più che onorata carriera di docente. 

Adesso la madre (interpretata dall'ammirevole Giulia Lazzarini) sta combattendo senza speranze in ospedale contro una patologia cardiaca. Assistita dal figlio (Moretti stesso, misuratissimo) ingegnere che si è messo in aspettativa per poterla meglio accudire, e dalla figlia che di mestiere fa la regista ed è, proprio in quei giorni, intensamente impegnata sul set. È la figlia il personaggio principale di “Mia madre”: per la prima volta una donna al centro di un film morettiano. L’espediente molto semplice ma efficace della sceneggiatura, scritta da Moretti con Valia Santella e Francesco Piccolo, è quello di creare una protagonista femminile per incarnare l’aura di Moretti. E, grazie all’identificazione encomiabile di un’attrice dalla sensibilità conclamata come Margherita Buy, acquista un sapore sincero una frase emblematica – «Tutti pensano che io sia capace di capire quello che succede, di interpretare la realtà, ma io non capisco più niente» – che, detta da Moretti, avrebbe generato involontarie sovrastrutture. L'universo ombelicale morettiano è del tutto presente: non per altezzosità, bensì per raccontare e valutare ciò che l’autore conosce meglio. È quindi autobiografico lo spunto della morte della madre, persa da Moretti quattro anni fa mentre stava completando “Habemus papam”, ma non è un film sull’elaborazione del lutto, né sul senso di inadeguatezza. 

E ipermorettiano è il contesto del film nel film, che consente una riflessione su cosa è stato e cosa è il cinema. Da quando il richiamo di un film come “Il cielo sopra Berlino” era tale da causare interminabili code di spettatori all’odierno set di Margherita che sta dirigendo un film “impegnato” sulla crisi del lavoro, però con declinante convinzione: le sembra strano che i ragazzi selezionati per interpretare gli operai siano giovani d'oggi “normali” e non riesce a spiegare ai suoi attori che vuole che recitino “accanto” al personaggio (frase criptica, destinata a diventare un divertente tormentone). E per di più la star del suo film è un capriccioso divo italoamericano (John Turturro, assai spiritoso) che riassume in sé tutti i luoghi comuni sui ruoli “sbagliati”. Ma anche questo personaggio viene visto con una certa tenerezza dal vero regista Moretti, che rivolge uno sguardo sereno alla morte della madre, al mondo del cinema, al tempo passato. Senza malinconia e senza rimpianti. Riconosce, invero, che per il suo (e il nostro) modo di pensare c’erano certezze e valori ben riconoscibili. Ma, con un sorriso quasi filosofico, prende atto che tutto cambia e, anche se crediamo di non capire più niente, tutto continua. 

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di Anna Mallamo

Un fingere di fare domande per fingere di non dare risposte

Sì, lo sapevamo già: non è che a noialtri Morettiscettici l’avesse proprio prescritto il medico, di andare a vedere “Mia madre”. Ma, da inguaribili utopisti e idealisti fuori stagione, continuiamo in fondo a sperare che prima o poi Nanni Moretti faccia un bel film, o anche solo un film. E lo speravamo proprio grazie a tutte le anticipazioni della vigilia: no no, stavolta è autobiografico, no no, stavolta tocca un tema delicato e universale, no no, stavolta si sposta dall’obiettivo e si fa da parte. Speravamo che il nostro Nanni fosse riuscito, finalmente, a bucare la prigione del narcisismo e a raccontarci davvero qualcosa. E ci aveva emozionato che questo qualcosa fosse, più o meno, la dolente via crucis d’una madre malata terminale, ricoverata in ospedale, e dei due figli inetti accanto, al capezzale estremo dove chiunque è inetto. Una situazione estrema ma molto comune, di quelle che porti per sempre incise nel cuore. 

Dobbiamo constatare invece che ancora una volta Moretti è riuscito a fare un film su... se stesso. Lui che stavolta veste i panni traslati di una Margherita Buy più nevrotica (e antipatica) del solito, regista insicura e figlia discontinua, del tutto incapace di vedere o ascoltare davvero chi le sta accanto. E probabilmente pure incapace di dirigere un film, almeno con un attore protagonista disturbato quanto lei (un John Turturro che fa la caricatura d’un attore che recita la parte d’un attore americano gradasso e un po’ cialtrone: diciamo che i metalivelli, nei film di Moretti, sono talmente tanti che alla fine uno perde il conto). Non parliamo poi di come Margherita-Nanni tiranneggia tutti gli altri, ripetendo la supercazzola «voglio vedere l’attore accanto al personaggio», ma in realtà noi lo sappiamo che il regista, qui, non vuole vedere l’attore ma solo un attore, ovvero se stesso, Nanni Moretti, accanto, anzi davanti, a ciascun personaggio. Un incubo. E c’è anche un momento, assai ispirato, in cui il sadomasochismo della regista Margherita-Nanni raggiunge una vetta difficilmente superabile: quando, dopo una ripresa pasticciatissima, alle educate repliche della troupe che le fa notare come avesse voluto tutto lei, risponde: «Il regista è uno stronzo al quale permettete di fare di tutto». Ecco, appunto. 

E così quando, in un parossismo nevrastenico, Turturro comincia a urlare: «Voglio tornare nella realtà, riportatemi nella realtà!» verrebbe da alzarsi in sala e urlare con lui. Perché forse è irreparabilmente finito, il tempo in cui disseminare di trovate del genere un film gracilino ai limiti dell’anoressia poteva incantare gli spettatori. Per fortuna che anche stavolta, come era accaduto in “Habemus Papam” con Michel Piccoli, c’è qualcuno che il regista nemmeno lo sta a sentire: la stupenda Giulia Lazzarini nei panni della madre morente, una di quelle donne fortissime rese fragili dalla malattia ma in qualche modo ancora adamantine. La sua luce, il suo smarrirsi ma essendo se stessa, il suo recitare senza avere accanto il personaggio (e men che meno il regista) sono l’unica cosa che ci è sembrata “vera” d’un film come al solito compiaciuto e furbo, che fingendo di criticarli strizza l’occhio proprio a quelli che «si muovono, conoscono, vedono gente». Un film in cui tutto sembra un poco artefatto, come i baffi finti di Turturro. Un film che finge di fare domande per dire che non ha le risposte (idea originale almeno quanto quella di girare un film nel film). Un film al solito ombelicale e arrotolato su se stesso, tanto che verrebbe da dire – parafrasando il celebre «D’Alema, di’ qualcosa di sinistra!» – «Nanni, gira qualcosa che sia cinema!». E in cui tu, per una volta, non ci sei davvero. 

 

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