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Il “Califfo” vuole la bomba atomica

                                                                                                 di Piero Orteca

Il “Califfo” vuole la Bomba. Quella con la “B” maiuscola, strapiena di isotopi di uranio arricchito o di plutonio, non fa differenza. L’importante è che faccia un bel fungo atomico e che mandi in cenere tutti i “kuffar” (infedeli) e i “tawaghit” (idolatri, ancora peggio) che affollano le città occidentali. Bluff? Forse. Ma riferendoci allo Stato Islamico e alle sue mille capacità di “stupire”, la prudenza non solo è opportuna, ma è “di rigore”. Come quelle notizie che vanno pubblicate per direttissima, anche se salta in aria la redazione. Insomma, ci siamo capiti: alzi la mano chi ha ancora voglia di ridere o di abbozzare appena appena un sorrisetto di sghimbescio quando parla il capo dell’Isis (o Is, o Isil, la sostanza è la stessa) e promette sfracelli. Quindi, zitti, mosca e pedalare. Nel senso che chi si è guardato si è salvato. D’altro canto, gli analisti israeliani non perdono tempo dietro le balle e se, questa volta, hanno deciso di prendere sul serio la raggelante notizia avranno le loro buone ragioni. Dunque, tanto per farla un po’ più chiara, l’ultimo numero della rivista on-line del “Califfato”, “Dabiq”, riporta con grande evidenza un articolo in cui si rivela, corta e netta, la strategia di Abu Bakr al-Baghdadi: «Lo Stato Islamico ha miliardi di dollari stipati nelle banche, così gli basta attivare una sua filiale in Pakistan per comprarsi una bomba atomica di contrabbando, da ufficiali corrotti». Sotto il titolo «Una tempesta perfetta», l’articolo è attribuito a John Cantlie, un giornalista britannico che l’Isis tiene in ostaggio da un paio d’anni. Ma il pezzo non si ferma a questo. Prosegue, descrivendo minuziosamente tutti i piani dell’Armageddon, al cui confronto l’Apocalisse di San Giovanni sembra una striscia di Charlie Brown. Procuratisi la Bomba, i corrieri del “Califfato” sarebbero in grado di farla viaggiare per i sette mari, fino agli Stati Uniti e (tacitamente sottinteso) fino all’Europa, che è pure a portata di mano. Anzi, di barcone. E infatti la Libia (assieme a Nigeria e Messico) viene citata tra le basi logistiche per il possibile contrabbando del terrore. La notizia riapre una ferita aperta e sanguinante. Cioè, la possibile caduta nelle mani dei fondamentalisti, assetatissimi di sangue, di WMD, cioè di Weapons of Mass Destruction, che tradotto paro paro significa “Armi di Distruzione di Massa”. Quelle che gli imbroglioni della Cia attribuivano a Saddam Hussein in Irak (ma quandomai) e quelle stesse che spuntano di nuovo all’orizzonte, ma di cui ancora nessuno parla, per non far venire tutti i capelli bianchi al già mezzo incanutito Obama. A infiocchettare il pacchetto pieno zeppo di brutti scherzi ci sono anche i “rumors” in arrivo dalla Siria, un altro capolavoro diplomatico dei brachettoni che affollano i pensatoi (si fa per dire) della diplomazia occidentale. Si parla, e non a vanvera, delle armi chimiche di Assad, che avrebbero dovuto essere già smantellate e che, invece, sono in parte bell’e stipate dalle parti di al-Safira, nei pressi di Aleppo. I catastrofici gingilli dovrebbero contenere gas “nervini” (Sarin), la micidiale Ricina, “Gas mostarda” (Yprite) e agenti neuro-distruttori come il “VX”. Bene, dove si stanno concentrando le forze del “Califfo” per attaccare? Ma ad al-Safira, è ovvio. Si diceva prima dei soldi necessari per comprarsi le armi di sterminio. L’Isis ha trovato come procurarseli, a profusione: un continuo assalto ai pozzi petroliferi di tutta l’area, per conquistarli e poi rivendersi il greggio a metà prezzo, sul mercato “parallelo”. In questo momento, secondo i Servizi occidentali, l’Isis controlla i tre-quarti della Siria e il 90% della sua produzione petrolifera. Inclusi i ricchi giacimenti di al-Furat, al-Omar e Deir Zour, che messi assieme hanno una capacità di 115 mila barili al giorno, ma che per ora vengono sfruttati solo in parte dalle milizie di al-Baghdadi. La stessa situazione si presenta nell’Irak centro-settentrionale, dove l’Isis gestisce i campi di Ajeel, Himrin, Ain Zalah, Safiyah, Batmah e Qayara (capacità potenziale: 175 mila barili/die, effettiva: 10 mila barili/die). Il problema vero, affermano gli specialisti, è che l’Isis non sceglie a casaccio i territori da conquistare, ma mira alle “giugulari” energetiche del nemico, cioè a pozzi e oleodotti. E dove non può prenderseli li distrugge, per arrestarne la produzione. Come in Arabia Saudita, dove ha già cominciato a colpire nella regione di Qatif, ricca di giacimenti, e come in Libia, dove i pozzi e i terminal che rientrano nelle aree in bilico sono sotto costante attacco. Nonostante la mancanza di “expertise” e di capacità tecnologiche estrattive, poi, i tagliagole del “Califfo” riescono, secondo stime ufficiose, a grattare fino a 20 milioni di dollari al giorno, rivendendosi il greggio “di seconda mano” a prezzi da ricettatori. Ovviamente, come si diceva prima, tutti questi denari che arrivano in saccoccia vanno ad alimentare la “causa”, con l’acquisto di armi di ogni specie, dai temperini per tagliare il pane ai lanciamissili di ultima generazione. Che la strategia dell’Isis si stia rivelando vincente è testimoniato dal fatto che la stessa musica viene suonata in Afghanistan. Là gli attacchi del “Califfato”, che rischia di lasciare ai margini al Qaida, si concentrano nelle aree più ricche di giacimenti minerari (uranio, gas, petrolio, ma anche pietre preziose, alabastro, sale e marmo a bizzeffe). In particolare, sono entrate nel mirino dell’Isis le regioni di Faryab, al confine col Turkmenistan, e quella di Farah. Gli americani stimano che l’Afghanistan abbia riserve minerarie che valgono la paperoniana cifra di un trilione di dollari. Anche per questo hanno scatenato una guerra infinita e sanguinosa, tirandosi appresso (e fregando), come il pifferaio magico e con la scusa della “esportazione della democrazia”, mezzo mondo. A Washington, anzi a Wall Street, sanno benissimo cosa può offrire l’Afghanistan ai ricchi imprenditori a stelle e strisce. Così, una mano sul cuore e l’altra sul portafogli, “Obama and Sons” hanno investito finora nell’industria estrattiva di Kabul oltre 40 milioni di dollari l’anno, sperando (lo dicono fonti specialistiche israeliane, mica i figli di Peppe il lattaio…) di farci la bellezza di 2 miliardi di bigliettoni verdi a botta. Capiti i gloriosi figli del Settimo cavalleria, gli impavidi difensori dei diritti umani e blablabla e poi blablabla? Ancora vanno predicando ai quattro venti un sincero impegno per le guerre “giuste”, trattando gli ingenui interlocutori come un popolaccio inebetito e “fucofago”, incapace di afferrare l’ovvietà: che cioè la lite è sempre per la coperta. Sepolcri imbiancati. Loro e chi gli ha tenuto bordone

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