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Isis, tutte le colpe degli Stati Uniti

                                                                                                

di Piero Orteca

 Ora che i buoi sono scappati dalla stalla, chi ha spalancato i cancelli si affretta a chiuderli. Con l’Isis, l’Occidente (americani e francesi in particolare) ha sbagliato tutto quello che c’era da sbagliare, facendo, in Medio Oriente e nel Golfo Persico, il passo più lungo della gamba. Eppure gli specialisti di relazioni internazionali esistono, i diplomatici cercano di fare onestamente il loro lavoro, ma i politici… beh, lasciamo perdere, perché la lingua batte dove il dente duole. È proprio quello il problema. Oggi mancano statisti “di qualità”, e quelli che esistono vanno in confusione mentale, facendosi guidare, un giorno a destra e l’altro a sinistra, da legioni di consiglieri che si accapigliano continuamente, sollevando polveroni spessi come il ghibli sahariano. Questo è il caso della “foreign policy” obamiana, dove i giri di valzer sono all’ordine del giorno. Fin dall’inizio, gli americani hanno trattato l’Irak come l’Afghanistan, l’Isis come al Qaeda e hanno messo l’Iran, a poco a poco, sullo stesso piano dell’Arabia Saudita. Risultato: un minestrone che non ti dico, dove il terrorismo diventava l’ingrediente fondamentale, come il sale, con cui si sarebbe dovuto, però, utilizzare il bilancino del farmacista e non certo la pala di una ruspa. A volere utilizzare un approccio induttivo, partendo dai particolari sul campo, fino ad arrivare ai massimi sistemi, va subito detto che le crisi regionali si sono andate “saldando” e che gli sviluppi “a macchia di leopardo” del terrorismo più sanguinoso (e sanguinario) oggi vedono protagonisti i sunniti contro gli sciiti, con gli occidentali (e gli altri “infedeli”) messi in mezzo, come i vasi di coccio in mezzo a quelli di ferro. Questa guerra civile islamica, a sua volta, si frammenta in conflitti tra fazioni e confronti tribali, specie all’interno del movimento sunnita. Insomma, l’Isis non è al Qaeda, e le strategie terroristiche divergono fondamentalmente per metodi e obiettivi finali. Affrontarli all’ingrosso, come se fossero tutti una cosa, significa fare una micidiale confusione e darsi lo zappone sui piedi. Per questo l’Isis colpisce senza remore. È in competizione con al Qaeda, ma si muove in maniera diversa, utilizzando cani sciolti e lupi solitari. Gente in arrivo anche dall’Europa (dove in molti sono tornati alla base) che ha combattuto in Siria contro gli alawiti di Assad e in Irak contro gli sciiti dell’esercito di Baghdad. Le cellule si muovono a caso, a piccoli gruppi, all’improvviso e prendendo non ordini ma “imbeccate” attraverso radio, televisioni, il web e, persino, riviste (“Dabiq” è l’organo ufficiale del Califfato). L’Isis, molto più sanguinario di al Qaeda (e ce ne vuole) sfrutta gli errori dell’Occidente per espandersi, estendendo le sue metastasi in tutto il Nord Africa, oltre che in Medio Oriente e nel Golfo Persico. In questo momento, oltre a Irak e Siria, il vero “lato debole della difesa”, strategicamente parlando, è la Libia, un immondo carnaio dove tutti sparano a tutti, ormai diventato il “terminal” in cui convergono tagliagole, briganti, fuorilegge, spietati assassini e feroci fondamentalisti. E siccome le disgrazie non arrivano mai da sole, ma quasi sempre in compagnia, la notizia delle notizie è che in Libia vanno prendendo sempre più piede le milizie del “Califfo”, al cui confronto i gruppi di al Qaida sembrano tante congreghe di chierichetti. La cosa già si sapeva da mesi, ma in queste ultime settimane il processo di “califfizzazione” dalle parti di Tripoli si è accentuato. Che il fondamentalismo islamico più estremo sia ormai fuori controllo è anche testimoniato dalla crescita esponenziale di attacchi e uccisioni contro i cristiani copti. In particolare, a essere nel mirino dei terroristi sono gli abitanti dei distretti dove l’Isis sta dilagando: Tripoli, Barqah e il Fezzan, nel sud. Si tratta di milizie islamiche preesistenti che hanno scelto di mettersi sotto l’ombrello del “Califfo” aderendo alla sua politica e sposando le sue strategie sanguinarie. A Derna e Bengasi, per esempio, opera il gruppo Majilis Shura Shabab al-Islam. Per questo è facile colpire la Tunisia, confinante e “moderata” e, in teoria, facendo gli scongiuri, sarebbe anche un giochetto seminare bombe nei tre quarti dell’Europa, attraverso “infiltrazioni” che potrebbero essere favorite dal fenomeno delle migrazioni di massa. Tre libri, molto ma molto autocritici, la raccontano lunga sulle scoppole prese da Obama e dai suoi “adviser” in tutta l’area. “Spring fever” (“Febbre di Primavera”) di Andrew C. McCarthy, già nel titolo è tutto un programma, reso più chiaro dal sottotitolo “L’illusione della democrazia islamica”. Inutile dire che l’opera spiega, col cucchiaino, come e perché gli americani abbiano fatto la figura dei brachettoni andando a prendere a calci il vespaio libico. Ce n’è pure per Mrs. Hillary Clinton, prossima candidata democratica alla Casa Bianca, ma soprattutto Segretario di Stato all’epoca del massacro di Bengasi, quando i terroristi islamici si liquidarono l’ambasciatore Usa e tre diplomatici (targati Cia), per “ringraziare” Obama di avergli tolto dai piedi il Colonnello Gheddafi. Il libro di Aaron Klein, “The Real Benghazi Story” vi illustra, è assicurato in copertina, perché Hillary e Obama non diranno mai la verità sull’inghippo di cui tutti noi, ancora oggi, paghiamo le pere. Vatti a fidare dei campioni della solidarietà planetaria! Ma il vero “masterpiece” sull’incubo che affligge i sonni di tutti i diplomatici occidentali è quello di Michael Morell su “La Grande Guerra della nostra epoca. La lotta della Cia contro il terrorismo, da al-Qaida all’Isis”. Morell, che è stato vicedirettore proprio della Central Intelligence Agency, rispondendo alle domande dello scrittore Bill Harlowe, ne racconta di tutti i colori. Dice dei grandi legami degli Stati Uniti con Gheddafi e del suo notevole sostegno offerto contro al Qaida. Poi…, beh poi Obama, per correre appresso a uno sprovveduto (e avido) come Sarkozy, ha inguaiato tutto l’Occidente, isole comprese, in quella che dev’essere considerata, senza ombra di dubbio, la fesseria più eclatante commessa in politica estera durante i suoi due mandati presidenziali. E Morell si batte il petto, ammettendo che il fallimento nel riuscire a governare una compiuta transizione verso la democrazia, durante le varie “Primavere arabe”, si è ripercosso molto negativamente sulla lotta al terrorismo. Oggi i drammatici risultati di questa politica fallimentare sono sotto gli occhi, inorriditi, di tutti.

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