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Siria, Putin dà il
benservito ad Assad

                                                                                                 di Piero Orteca

Abu Bakr al-Baghdadi (al secolo il “Califfo”), e il suo Stato Islamico hanno fatto il miracolo: dopo cinquant’anni stanno mettendo d’accordo tutti, ma proprio tutti, vecchi e nuovi amici e nemici, su come gestire il Medio Oriente. Il pericolo del fondamentalismo scanna-scanna dell’Isis, che fa passare per chierichetti anche i seguaci di al Qaida, ha convinto i protagonisti più importanti della diplomazia internazionale ad abbandonare antiche rigidità e incartapecorite inimicizie, per concentrarsi su ciò “che conviene fare”. Trattasi dell’adozione di un approccio finalmente “cooperativo” nelle relazioni internazionali, che sta sotterrando modelli squisitamente ideologici, veri residuati bellici della Guerra fredda. Insomma, come avevamo anticipato, il cerchio si chiude e gli interessi comuni superano di gran lunga le divergenze strombazzate per tacitare la piazza o alcune minoranze “rumorose”. La notiziona, che lascia molti “esperti” con un palmo di naso, è che lo scorso 20 ottobre Putin ha convocato il presidente siriano Assad a Mosca per un briefing, nel corso del quale gli ha spiegato le sue strategie politiche (e militari) prossime venture. Al meeting erano (significativamente) presenti il Ministro degli Esteri Sergei Lavrov, il Ministro della Difesa Sergei Shoigu e il vice Ministro della Difesa Michael Bogdanov, strategist leader per l’Iran e il Medio Oriente. L’importanza del meeting? Fondamentale. Putin ha praticamente dato ad Assad il benservito, nel senso che gli ha anticipato il “core” del piano russo-iraniano (e americano, lo sanno anche i gatti, ma non si deve dire…). Dunque, la struttura statale, militare e dell’intelligence siriana resterà in buona parte intatta. Tranne un elemento: Bashar al-Assad, che se ne dovrà andare. Con la musica, e il tappeto rosso e magari con qualche incarico dei quelli che fanno tanto “chic”, ma che non servono a niente. Sta ad Assad scegliere lo spartito giusto. Marcia trionfale dell’Aida (a uscire, salvando la pellaccia e il gruzzoletto) o Marcia funebre di Chopin (perdendo carrozza e cavallo)? Secondo “compare” Putin, che di giochi di potere se ne intende, il presidente siriano se non è proprio un fesso, sceglierà la prima opzione. Anche perché russi e iraniani gli hanno già anticipato che, nel caso (malaugurato per lui) di rifiuto a mollare la poltrona, chiuderanno i rubinetti dei rifornimenti. Obbligandolo a scappare di notte. Naturalmente, dicevano i latini, “est modus in rebus” e Assad, accettando il suo dorato esilio, non dovrà andarsene immediatamente. Diciamo che sovrintenderà la transizione, ma poi, parola di “compare” Putin a “compare” Obama, dovrà sbaraccare e togliersi dai piedi. E, tanto per restare in tema di sorprese e di eventi politici che non ti aspetti, dal Medio Oriente arriva un’altra notizia di quelle che fanno “boom”. Una volta si chiamava “telefono rosso” (in realtà era una telescrivente) e metteva in collegamento direttamente e in tempo reale la Casa Bianca e il Cremlino. Serviva a prevenire possibili “misunderstandings” (incomprensioni), che avrebbero potuto condurre, dritto filato, a un conflitto nucleare, senza che nessuno fosse in grado di fermarlo. Nemmeno ai più alti livelli. Oggi, più prosaicamente, un collegamento di questo tipo prende il nome di “linea calda”. Ma la sua utilità è immuta ta: parlandosi e chiarendosi prima che occasionali “interposizioni” possano sfociare in scontri aperti, due potenze mettono le mani avanti per evitare grane peggiori. E’ il caso di Russia e Israele che, senti senti, hanno siglato un patto di ferro per spartirsi i cieli della Siria in “spicchi” e per impedire che i piloti di Mosca e quelli di Tel Aviv si pestino i calli a vicenda. Ma la storia non finisce qui. La “hot line” russo-israeliana serve anche da sponda, più o meno indirettamente, agli americani, che la utilizzano per non intralciarsi con “compare” Putin. È un modo per salvare la faccia e mascherare un’alleanza conclamata nei fatti, che però Obama si preoccupa di smentire a ogni piè sospinto. In effetti verrebbe difficile comprendere, a gran parte dell’opinione pubblica, questi giochetti architettati dalla “diplomazia parallela”. Quella che fa i fatti, mentre l’altra, che potremmo definire “ufficiale” e buona solo per turlupinare i gonzi e ammansire i “capitan fracassa” di turno, fa solo chiacchiere. Bene, allora dovete sapere che, domenica scorsa, il quartier generale dei russi vicino a Latakia e quello israeliano di Tel Aviv hanno cominciato a collaborare per armonizzare gli interventi nei cieli della Siria. Si tratta della pratica attuazione dell’accordo siglato da Putin e Netanyahu a Mosca il 22 settembre e definito nei dettagli lo scorso 6 ottobre dal capo di stato maggiore russo, generale Nikolay Bogdanovsky e dalla sua controparte israeliana, il generale Yair Golan. Il patto è stato confermato nei dettagli lo scorso 15 ottobre dal Ministero della Difesa di Putin, che lo ha definito uno strumento utile a evitare “clashes” (scontri) tra gli aerei delle due potenze che operano in Siria. In effetti, sottolineano gli israeliani, la linea serve da coordinamento anche agli americani che, come dicevamo prima, hanno rifiutato di aprirne una ufficiale con i russi, preferendo servirsi della “hot line” di Tel Aviv per non essere bersagliati dalle critiche. Fonti israeliane rivelano che Obama, dopo aver fatto dire al suo portavoce, John Earnest, che gli Usa non pensavano proprio a dialogare con le forze aeree russe, ha dovuto fare un rapido dietro-front. L’esercitazione “Blue Flag” in partenza dalla base di Ovda (nei pressi del Negev) e che mette assieme caccia israeliani, statunitensi, greci e, udite udite, anche italiani, non sarebbe stata possibile senza un accordo preventivo coi russi. Anche perché, dicono a Gerusalemme, sui cieli siriani volano aerei militari di una dozzina di Paesi ed è un miracolo che finora non ci sia scappato il morto. Per la verità, un episodio c’è stato. Ma ha riguardato un “drone” (velivolo senza pilota) russo abbattuto dai turchi per uno sconfinamento di un paio di chilometri. A scanso di brutte sorprese, i terminali della base russa di Al-Hmeineem (vicino Latakia) saranno gestiti da ufficiali che parlano arabo, mentre in quelli israeliani di Tel Aviv gli air-controllers saranno anche provenienti da altri Paesi occidentali. Insomma, visto come poi sono andate le cose, bastava poco agli americani e agli occidentali per fare il passo giusto e mettersi d’accordo per trovare una soluzione alla crisi siriana. Ci sono arrivati ora, praticamente presi per il collo dagli eventi. Potevano pensarci 250 mila morti fa.

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