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Infrastrutture, la spina
dorsale dello sviluppo

Barack Obama

Barack Obama, che non può certo essere definito un bieco cementificatore, l’ha detto in uno dei suoi primi discorsi sullo Stato dell’Unione. Le infrastrutture sono la spina dorsale di ogni moderna democrazia industriale. Nel documento erano previsti investimenti per 350 miliardi di dollari, destinati al rifacimento di tutto il network dei trasporti degli Stati Uniti, un passaggio indispensabile, perché una nazione moderna, senza un’ossatura efficiente e all’altezza dei tempi nei suoi collegamenti, non può definirsi tale. E infatti l’Unione Europea, sin dal Consiglio di Essen del 1994, ha autorizzato lo sviluppo di 14 grandi Assi di comunicazione (definiti spesso come “corridoi”). Nel 2005, Bruxelles ha rivisto il Piano alla luce delle implementazioni raccomandate dalla task-force diretta da Karel Van Miert, e ha deliberato di allargare da 14 a 30 gli Assi e i Progetti prioritari, partendo dal famoso “corridoio 1” (Asse ferroviario convenzionale transeuropeo Berlino-Verona/Milano-Bologna-Napoli-Messina-Palermo). Uno sforzo progettuale di questo tipo risponde non solo all’esigenza di costruire una rete viaria e ferroviaria in grado di mettere assieme il Vecchio Continente dal punto di vista dell’omogeneità e della speditezza negli spostamenti, ma anche a quella che i pianificatori chiamano “Trans-territorial and multi-level governance”. Cioè l’elaborazione di una rete che punti a integrarsi con i nuclei intermodali dei trasporti del Nord Africa e del Medio Oriente, a partire proprio dal “corridoio 1”, asse portante di una strategia destinata a rimodellare l’Europa, attraverso una comunione tra i popoli, liberi di muoversi e, soprattutto, in grado di far viaggiare, nella maniera più veloce possibile, materie prime e prodotti finiti.

La soluzione? Alzare la “qualità” del dibattito sulle grandi opere, comprese le reti energetiche e telematiche, liberandolo da sterili contrapposizioni ideologiche e valutando la loro funzione di occasione irripetibile per lo sviluppo. Al concetto di “cattedrale nel deserto”, si può rispondere con le nuove visioni della pianificazione diffuse nei Paesi più avanzati: le grandi infrastrutture sono il volano insostituibile per costringere i governi a fare quelle più “piccole” (bretelle di collegamento, elettrodotti, ferrovie regionali, aeroporti di secondo livello, linee a fibre ottiche per la trasmissione dati) e a non far andare alla malora quelle principali (reti ferroviarie, centrali elettriche, autostrade) spesso ritenute un “affare in perdita” nel profondo Sud. Comunque, il vero problema resta politico. Nel nostro Paese, in passato si sono sfortunatamente sommate due debolezze: quella di una pianificazione in mano a manager incapaci e quella di un vecchio capitalismo delle ferriere, espressione della socializzazione delle perdite e della privatizzazione dei profitti.. La verità, come spesso capita, sta in mezzo: è inutile parlare in astratto del valore e dell’efficacia di una grande opera. Dipende da chi la progetta, da chi la finanzia e da chi materialmente la costruisce, rispettando prima di ogni cosa l’ambiente e la legalità. I giapponesi sono stati capaci di realizzare nell’arco di un quindicennio il formidabile sistema integrato di collegamento dello Honshu-Shikoku Crossing, un progetto ambizioso, composto da arditissimi ponti (in testa l’Akashi Kaikyo), autostrade e viadotti, completato in una delle zone più sismiche della Terra, con coefficienti di rischio che superano di molto i 7,1 gradi Richter del terremoto del 1908 a Messina. Il futuro di una nazione si misura sulla sua capacità di progettarlo e di realizzarlo. Il discorso non è “se” fare le grandi infrastrutture, ma il “come” farle. Per avere una controprova basta chiedere a Barack Obama.

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