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Libia, ecco perché qualcuno bara

Libia, ecco perché qualcuno bara

Prima i francesi di Sarkozy hanno fatto carne di porco della Libia (assieme a quell’incapace di Cameron), poi Mrs. “Lacrimuccia facile” Clinton (occhi umidi e dentatura da piranha) ha tirato dentro il ginepraio nordafricano, con tutte le scarpe, quel sant’uomo di Obama. Infine (e ti pareva!) gli imbecilli della compagnia sono stati chiamati a contribuire, per pagare le uova rotte mentre gli “alleati” preparavano la frittata. Indovinate chi porta la bandiera internazionale degli “scemi del paese”? Ma gli italiani, è ovvio. Che facendo un’equazione da scuola serale o i quattro conti della lavandaia (fa lo stesso), al tempo di Gheddafi, dalla Libia avevano tutto da guadagnare. Mentre ora che gli altri si sono divisi pure i lacci delle scarpe del Raìs, hanno tutto da perdere.

Funziona così? Sì, funziona così, quando non si ha la spina dorsale per opporsi alla cupidigia di chi si dichiara “amico” ed invece è solo pronto a sfilarti pure i calzini mentre passeggi. Abbiamo dei buoni Servizi di Intelligence, un’eccellente tradizione diplomatica (e abilissimi ambasciatori) ma, purtroppo difettiamo nella sfera politica. Chi piglia le decisioni non capisce granché di relazioni internazionali e cammina a rimorchio, come quelle sciabiche che fanno pesca a traino sperando di acchiappare qualche tonno di straforo. Così è se vi pare, scriveva il grande Pirandello. Qui, però (purtroppo) i fatti sono conclamati. Chi ha portato la guerra in Libia doveva sapere che avrebbe inguaiato mezzo Occidente, Italia in primis. E stupisce che, nella Patria del “bel canto”, nessun tenore “politico” abbia alzato la voce. Al massimo, qualche guaito di disappunto. E tanto è bastato. Problemi? Una montagna. Rogne? Quelle più grosse devono ancora arrivarci addosso.

Lasciamo stare (per ora) la “Lybian Trail”, la pista libica della disperazione, il collettore ad ansa dei migranti che hanno i soldi per pagarsi il viaggio verso i “paradisi” del vecchio Continente. Quando si avrà il coraggio di alzare il tombino di quest’esodo di massa si vedrà, veramente, a chi appartiene la disperazione e chi ci mangia sopra: predoni, jihadisti e malavita internazionale. Punto. Le altre considerazioni (più o meno pie e più o meno “aggratis”) le affidiamo a chi fa altri mestieri. Oggi è la Libia il pericolo pubblico numero uno. E per un semplice motivo: non si capisce bene chi comandi. Altro che “esportazione della democrazia”. Questa “operetta da tre soldi” (ma almeno Brecht era una persona seria) lasciatela ai teatranti di Washington e a tutti i cervelloni del Council on Foreign Relations, che dai tempi di Clinton (CiccioBilly) e di Leslie Gleb vogliono insegnarci a correre, mentre loro sanno a malapena camminare, sciancati. Hanno preso troppo sul serio Fukuyama e si sono dimenticati di Huntington. Pazienza. Tempo fa la BBC si è fatta una domanda: ma chi comanda in Libia? Risposta: nessuno. Nel senso che ci sono la bellezza di 1.700 gruppi armati, “with different goals”, cioè, tradotto papale papale, con obiettivi diversificati. A cominciare, tanto per capirci, da soldi e potere, che sono i comuni denominatori. Diteglielo, all’Esercito della Salvezza, che oggi in Libia non comanda il verbo di Hume, o quello di Locke o persino il pensiero di Hobbes. No, il cognome che va per la maggiore è Kalashnikov. E chiunque ne tenga uno in mano, rischia persino di farsi regalare una cattedra all’Università di Tripoli. Ma andiamo ai fatti e vediamo perché l’Italietta c’è dentro fino al collo. In Libia ha preso piede il Califfo, questo lo sanno pure le pietre e gli scorpioni. E visto che la “coalizione”, alleata coi resti dei vari governi locali, non è riuscita a tirare fuori manco un ragno dal buco, adesso Obama, obtorto collo, ha autorizzato una campagna di bombardamenti (di un mese) contro le roccaforti dell’Isis.

Parliamo di Sirte e dintorni (40 mila chilometri quadrati, non proprio un fazzoletto di terreno). Ma le cose non sono così semplici. A lanciare l’attacco non è stata una portaerei, ma una nave “tuttofare” da assalto anfibio, la “Wasp”, (assieme al cacciatorpediniere “Carney”) che può imbarcare la miseria di sei aerei (Harrier) e 14 elicotteri. Spalmati su 40 mila chilometri quadrati di deserto, al “Califfo” fanno il classico baffo. Gli specialisti israeliani su questo sono corti e netti: i bombardamenti andranno avanti fino alle calende greche e le sortite dovranno essere intensificate. Di assai. Ergo: guardatevi la cartina e stabilite da dove potrebbero decollare gli aerei dei “gringos”.

Qualcuno a caso (Obama) pensa possa trattarsi di Sigonella, Sicily, Italia. Ecco che la nostra contrapposizione frontale con l’Isis, fin qui scacciata dalla porta, rientra alla grande dalla finestra. Vista la polvere che si sta alzando sull’affaire, i calcinacci che piovono dal soffitto e le millanta dichiarazioni dei nostri politicanti, l’una più contorta dell’altra, c’è da credere che possa essere proprio così. Finora il caicco italico ha navigato di bolina, controvento, facendo finta di avere dichiarato guerra senza quartiere al Califfo. Ma, in effetti, fino a oggi, siamo stati molto attenti a non esporci in primissima fila, limitandoci all’essenziale. Abu Bakr al-Baghdadi ha infatti la fissazione nevrotica, anzi, psicotica, delle rappresaglie. Non vorremmo che la tardiva reazione di Obama, condotta da una nave che è quasi un peschereccio, ci obbligasse a partire all’attacco al grido di “banzai”. Magari cedendo solo l’utilizzo delle basi, per non uscire pesti e ammaccati. In quella circostanza, la Libia potrebbe diventare il “casus belli” per far pagare le pere anche ai “crociati” italiani. Con qualche raffica di attentati. Lo sappiamo, l’equazione è spregevole, ma è anche la più probabile. D’altro canto, l’affaire libico si tinge di giallo. La Casa Bianca non ha alcuna intenzione di imbarcarsi in una guerra strada per strada, dove i cecchini del nemico potrebbero spararti da qualsiasi scantinato. I conti però non tornano. La “Wasp” imbarca 2.200 marines che, secondo gli israeliani di “Debka”, non metteranno manco un alluce sul suolo libico. Se proprio bisogna mandare dei soldati “ci pensino gli altri”. Un nome a caso? Gli italiani, che col “cassone di sabbia” di giolittiana memoria hanno qualche dimestichezza (e si leccano ancora le ferite, da Tobruk a El Alamein). Se questo è l’intento di Obama e, soprattutto, della signora Clinton, che già fa cadere balconate prima ancora di diventare Presidente, allora bisogna far capire a codesti “alleati” che “qua nisciun’è fesso”. Sappiamo che in Libia già operano istruttori italiani, e tanto basta. Qualora al governo di Roma venisse la malaugurata idea di spedire un contingente di “morituri” dalle parti di Tripoli e Bengasi, cambino idea. Se vogliono giocare ai soldatini si comprino una scatola di ussari napoleonici. Di piombo. I cavalli non sporcano e i cavalieri non muoiono mai.

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