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Usa, i “servizi”
sono uno scolapasta

Usa, i “servizi” sono uno scolapasta

Dicono i francesi quando vogliono annunciare un conflitto senza quartiere: «à la guerre comme à la guerre». Una guerra, appunto, in cui non si fanno prigionieri e che viene combattuta con tutte le armi a disposizione: da quelle “nobili” (si fa per dire) fino ai mezzi più immondi e sleali. Ora, vista la piega (bruttina) che stanno prendendo gli eventi nello scacchiere internazionale, ci pare di capire che qualsiasi “novità” possa essere interpretata come il capitolo di una nuova, incipiente, Guerra fredda. Al tempo che fu, Barack Obama, pur assediato da mille problemi, aveva dato priorità assoluta alla grana dei “servizi”, chiamando a rapporto capi e capetti, con l’intenzione di tagliare un paio di teste. Dopo l’unificazione, nel 2004, dei 16 servizi segreti in un unico Direttorato (voluto da Bush-figlio), la Casa Bianca aveva puntato a riconquistare punti nel campo dell’intelligence. Si tratta di una storia vecchia: col crollo dell’Unione Sovietica, gli Stati Uniti hanno destinato meno risorse al settore dello spionaggio e a quello del controspionaggio. Dipartimenti fondamentali per qualsiasi grande democrazia, che purtroppo sono andati progressivamente indebolendosi. Ora, il panorama è rabbrividente e Obama cerca, al solito, di mettere pezze. I servizi segreti USA sono stati una pletora e, soprattutto, si sono sempre pestati malignamente i calli, alla faccia della sicurezza nazionale. Questa competizione ha raggiunto il suo acme con l’attentato alle torri gemelle. Intendiamoci, non è che tutte le colpe siano state delle barbefinte targate CIA. Le castronerie vanno ecumenicamente divise, e in senso bipartisan, con un sistema politico che ha ritenuto logico fino al 2004 tenere in piedi, senza un “coordinatore”, un carrozzone che contava ben 16 servizi segreti. Che nel migliore dei casi avevano qualche “difetto di comunicazione” e, nel peggiore, si facevano allegramente le scarpe a vicenda. Insomma, a rileggere la storia dei servizi USA, l’impressione è quella di una partita, senza arbitro, in cui tutti hanno giocato contro tutti. Non si spiegherebbero altrimenti i clamorosi rovesci subiti in politica estera e la strutturale incapacità di elaborare scenari credibili sull’evoluzione delle aree di crisi. Sottovalutazione degli avversari, sopravvalutazione degli “amici”, informazioni comprate a peso d’oro rivelatesi veri e propri bidoni, previsioni sgangherate sulla “ricaduta” di certe mosse diplomatiche: ce n’è per tutti i gusti. Certo, i bussolotti alla fine li sceglie la politica e, proprio per questo, Bush e i suoi adviser non saranno certo ricordati come raffinati strateghi. Anzi, uscendo dall’emporio di porcellane che si trova in Pennsylvania Avenue, l’Amministrazione repubblicana ha lasciato dietro di sé un vero e proprio cimitero di vasi cinesi, e al povero Obama, che ha cercato disperatamente di rincollarli, è venuto a mancare pure il mastice. Tutto questo che abbiamo scritto è l’antipasto, che fa apparire anche le brutture politiche di casa nostra quasi come peccati veniali. Gratta gratta, invece, sotto la vernice della grande democrazia americana, si scoprono montagne di rogne. L’ultima (sarà un caso?) riguarda la misteriosissima National Security Agency. Un “contractor” del servizio segreto “più segreto che esista” si sarebbe impossessato di dati scottanti che potrebbero mettere a rischio la sicurezza nazionale. Harold Thomas Martin (già arrestato dall’FBI) avrebbe alleggerito il cervellone della NSA, appropriandosi di informazioni “highly sensitive” capaci di infliggere “exceptionally grave damage” agli Stati Uniti (e alla compagnia di processione degli alleati, è ovvio). Martin lavorava per Booz Allen Hamilton, società che “affitta” teste d’uovo alla Difesa degli Stati Uniti. Specialisti, cioè bravi, ma così bravi, che sono capaci discoprire qualsiasi “hacker”. A meno che… a meno che i “pirati informatici” non siano proprio loro. In quel caso, campa cavallo. Martin, il controllore che nessuno controllava (abbiamo reso l’idea?) nel corso di diversi anni ha stipato i suoi armadi di dati “top secret”. Non aveva manco bisogno di muoversi dal suo ufficio. Glieli portavano fino a casa. E lo pagavano pure. Risultati: Martin ha bruciato informazioni costate miliardi di dollari, mettendo a rischio tutta la catena dei servizi Usa, diventati improvvisamente poco “segreti” e molto “pubblici”. L’ennesimo scoppolone che coinvolge le agenzie di sicurezza a stelle e strisce, ricorda l’affaire Snowden (e Wikileaks). Anche se in quel caso l’autore aveva agito per odio e contro i metodi “anticostituzionali” usati dalla NSA. Il danno procurato da Martin potrebbe essere gigantesco, perché coinvolge tutti i complessi codici di decrittazione utilizzati per difendersi dagli “hackeraggi” o, addirittura, per studiare la pirateria indispensabile per intrufolarsi nei sistemi informatici degli avversari. L’operazione di controspionaggio del Federal Bureau è riuscita a spiegare anche alcuni “misteri” che avevano riguardato conflitti “informatici” con Paesi come la Cina, la Russia, la Corea del Nord e l’Iran. Certo, a detta degli specialisti internazionali di “security”, lascia alquanto perplessi la leggerezza ancora una volta dimostrata dalla National Security Agency, che non ha fatto niente per migliorare la blindatura dei suoi dati dopo l’affare Snowden, che ha finito per essere accolto a braccia aperte, con tanto di asilo politico, a Mosca. Il democratico Adam Schiff, autorevole componente dello House Intelligence Committee ha dovuto ammettere a denti stretti che le agenzie americane per la sicurezza avrebbero bisogno di un bel colpo di ramazza. Tra le altre cose, due agenti NSA sono stati arrestati negli ultimi anni per lo stesso reato di Martin, il quale, dal canto suo, è stato messo sotto la lente di un microscopio per capire quale fossero le sue reali intenzioni. La prima parola che viene in mente (senza avere studiato alla Cia) è naturalmente “soldi”. Ancora non si sa nemmeno a chi possa avere passato le informazioni rubate dal database NSA, ma, secondo diversi analisti, proprio Martin potrebbe essere legato al gruppo di hackers autodefinitosi “Shadow Brokers”. Ma c’è anche, e per dovere d’informazione la riportiamo, una seconda versione “di minoranza” dei fatti. Martin sarebbe una “vittima” e un manipolo d’imbroglioni legati al mondo degli hacker ha voluto eliminarlo, perché le sue ricerche gli avrebbero potuto permettere di pescare i pirati che di tanto in tanto violano i computer del Pentagono. Insomma, ricapitolando: stiamo freschi. Finora in questa vicenda, metafora di una potenza Usa dissoltasi nel tempo, nessuno ci ha capito il resto di niente. Nemmeno gli americani, che indagano su tutti gli altri, ma che si sono dimenticati di passare al setaccio casa loro.

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