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Perché i democrats vogliono le elezioni

Perché i democrats vogliono le elezioni

Se è vero che è stato soprattutto un referendum su di lui e non sulle modifiche alla Costituzione – niente ipocrisie, per favore – Matteo Renzi può contare su una solidissima base “personale” di voti: il Sì, con un’affluenza da elezioni politiche (prossima addirittura al 70%), ha infatti ottenuto il 40,1% dei consensi. Anche a dare una sforbiciata, al premier uscente e segretario Pd resta una percentuale alta. I suoi avversari – e tra questi, peraltro, c’erano pezzi pregiati della minoranza democrat – hanno ottenuto “soltanto” il 59,9%: stiamo parlando della “Grillo&Casaleggio srl”, del resuscitato Berlusconi, dell’ultranazionalista ex padano Salvini, della Sinistra più intransigente, di “Fratelli d’Italia” e alcune altre non memorabili sigle. Lo scenario è chiaro, non serve dilungarsi sull’eterogeneità dei vincitori del referendum. Ciascuno – chi più, chi meno – quasi certamente di minor peso rispetto al premier dimissionario. Il Pd, infatti, ha chiarito di voler andare alle urne «presto».

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Ora l’interrogativo che in queste ore milioni di italiani si stanno seriamente ponendo (anche alcuni di coloro che hanno scelto, per ragioni diverse, di non votare). Che cosa accadrà?

Il Presidente Mattarella ha evidenziato subito, ieri, che ci sono scadenze da rispettare. Ha quindi ritenuto necessario, poiché i tempi sono stretti, congelare le dimissioni di Renzi fino a quando non sarà approvata la legge di bilancio. E il premier, per senso di responsabilità, ha “obbedito”.

Una volta varata la manovra bisognerà occuparsi della riforma elettorale: il Senato, nelle attuali condizioni, sarebbe ingovernabile. Sarà il Parlamento a dover affrontare questo difficile nodo, e in questa fase servirà un esecutivo che dia una sensazione di stabilità all’Europa. Mattarella sembra orientato verso un governo di scopo (premier Padoan, già ministro dell’Economia di Renzi, oppure – seconda opzione – Pietro Grasso, presidente del Senato, seconda carica dello Stato).

Altro bivio: il Colle, quando guarda alla riforma elettorale – su cui dovrebbe coagularsi, compito arduo, un’ampia convergenza –, pensa a un ritorno al sistema proporzionale?

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Va ridotto al minimo il danno che potrebbe venire da quello che obiettivamente ha l’aria d’essere un salto nel buio. Liberi gli italiani di bocciare Renzi, liberi di fregarsene del Jobs Act, dei posti di lavoro creati con gli sgravi alle imprese, degli insegnanti riscattati dal precariato pur tra infinite polemiche… geografiche, liberi anche d’infischiarsene dei contratti rinnovati ai metalmeccanici (con il convinto ok della Fiom di Landini) e agli statali (dopo sette anni di stallo), della regolamentazione delle unioni civili, del bonus di 80 euro, degli stanziamenti per il Sud, della copertura Ue – dopo le aspre sollecitazioni del nostro governo – delle spese straordinarie per la ricostruzione nell’Italia centrale devastata dal terremoto. Liberi gli italiani, pure, di cestinare – dopo averlo chiesto per decenni – l’abbattimento dei costi della politica che stava nella riforma costituzionale (sicuramente imperfetta, ma che era prova certa d’una volontà di cambiamento vero). Liberi di votare “contro” e basta, come nel Regno Unito e in America (la piccola Austria, almeno, si è salvata), liberi di tirar pietre senza avere un piano B.

Ebbene, il piano B dovrà trovarlo Mattarella, per proteggere le nostre tasche dalle strumentalizzazioni del terrorismo finanziario globale, per evitare che gli italiani riprendano a vivere tra i giochini dei mercati, i saliscendi dello spread e i ricatti del rating. Perché non siano vanificati i sacrifici fatti, le cose realizzate dopo lunghi anni inoperosi.

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Ci sia consentito, ancora, qualche rigo: sull’odio che scorre a fiumi nel nostro Paese spaccato in tre parti almeno. Più che evidente è la deformazione del concetto di potere: l’unico obiettivo, ormai, sembra essere quello di sbaragliare la concorrenza; la maggioranza dei “leader” di quest’epoca non crede di poter davvero trasformare le cose, sicché mira soltanto – quale sia il mezzo o il pretesto – a sostituirsi al re. Ebbene, la malattia ha contagiato la gente comune: anche in presenza di buoni “prodotti politici” se ne lamenta l’inefficacia, o addirittura non se ne riconosce l’esistenza. Giacché nulla può più davvero accadere, allora si enfatizza il principio dell’alternanza. Che, così ridotto, non è più espressione di democrazia, ma anzi reiterato ostacolo al progresso, alla crescita di un popolo. Votare “con la pancia” placherà forse il sintomo ma non è mai una terapia.

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