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Ora l’Isis ha intenzione di esportare la guerra in Libano

Ora l’Isis ha intenzione di esportare la guerra in Libano

Il Califfo l’ha capito da un pezzo. D’altro canto la dabbenaggine dell’Occidente gli ha fornito su un piatto d’argento le chiavi per cambiare strategia in corsa: in Siria e in Irak l’aria comincia a essere irrespirabile?

Niente paura, con una conversione a 180 gradi l’Isis sbarcherà in Libano. L’importante è alimentare la guerra mondiale tra sunniti e sciiti scatenata dalle “Primavere arabe” cavalcate (a sghimbescio) da francesi e inglesi e, obtorto collo, anche da Obama.

Per ora gli americani stanno cercando di circondare completamente Raqqa (“capitale” del Califfato) prima che i tagliagole di Abu Bakr al Baghdadi si eclissino senza lasciare traccia. O, almeno, qualche orma nelle sabbie del deserto pare sia stata trovata. Con un colpo di teatro architettato da suoi “strategist” iracheni (tutti fedelissimi di Saddam Hussein, che Bush-figlio ha scaraventato nelle braccia del fondamentalismo islamico più radicale), l’Isis ha cambiato improvvisamente la sua “way out”, la direzione di fuga. Anziché puntare a est su Deir ez-Zour e a sud-ovest verso la provincia di Anbar (per l’esattezza su Abu Kamal) i feroci “barbudos” con la bandiera nera, che da lunga pezza scannano pecore e cristiani (ma anche sciiti), hanno avuto l’ordine di dirigersi verso i monti dell’Antilibano.

Come mai? Le ragioni alla base di un tale giro di valzer strategico possono essere tante. Secondo spifferi usciti dalle segrete stanze degli Alti comandi di Gerusalemme (gli israeliani sono particolarmente sensibili a quanto avviene in Libano e temono, sopra ogni altra cosa, gli sciiti di Hezbollah), l’Isis pensa di poter fare un solo boccone del governo (e dell’esercito) di Beirut.

Tra le altre cose, la tribalizzazione religiosa e politica del Paese dei Cedri può fare il gioco dei “califfi”. Uno degli obiettivi è la seconda città (sunnita) dell’ex “Svizzera del Medio Oriente”, cioè Tripoli, un porto (molto promettente) che si trova 85 chilometri a nord di Beirut.

Altri bersagli, questa volta a sud, sono Sidone (90 mila abitanti) e, soprattutto, il campo-profughi palestinese di Ain Hilwa, dove dimorano un quarto di milione di sunniti, che sarebbero pronti a passare, armi e bagagli, sotto le insegne dello Stato Islamico. In ogni caso, dicono le teste d’uovo di Gerusalemme, americani e russi vedono qualsiasi ipotetico intervento in Libano come un azzardo da evitare. A scanso di equivoci, il Presidente libanese, Michel Aoun, è stato già abbondantemente avvisato (e catechizzato). Comunque, le tattiche dilatorie del Califfo, per aprirsi la strada verso una ritirata strategica, stanno funzionando.

A Mosul, dopo sei mesi, i quartieri occidentali sono ancora “terra di nessuno”. Sfruttando trappole esplosive e cecchini, i miliziani dell’Isis hanno messo alla frusta le forze della coalizione. Tanto che il brigadier generale John Richardson (US Army) è sbottato, chiedendo un cambiamento tattico di gran corsa.

Il vice-comandante della coalizione ha ordinato ai “regolari” iracheni di attaccare su due fronti, per isolare la città vecchia.

Cosa che potrebbe lasciare migliaia di civili tra due fuochi, esposti alla battaglia.

Ad ogni modo, le notizie che sono in arrivo da Mosul già parlano di un esodo biblico per sfuggire agli orrori della guerra.

E il tycoon Donald Trump che fa? Forse la crisi non gli interessa troppo.

Mentre i russi fortificano Latakia (Siria) e costruiscono una mega-base militare a Sidi El Barrani (Egitto), il presidente americano è impegnatissimo a contare messicani alla frontiera e a leccarsi le ferite dopo la battaglia persa malamente contro l’Obamacare.

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