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Starnone: la scrittura solleva i veli sull’invisibile

Starnone: la scrittura solleva i veli sull’invisibile

Ieri, durante la cerimonia di inaugurazione della settima edizione della kermesse TaoBuk, lo scrittore napoletano Domenico Starnone ha ricevuto il riconoscimento Taobuk Award for Literary Excellence.

Autore di punta della casa editrice torinese Einaudi, dopo il successo ottenuto con “Lacci” nel 2014 (sbarcato in teatro con Silvio Orlando nei panni del protagonista e la regia di Armando Pugliese), due anni dopo Starnone è tornato in libreria con “Scherzetto” (pp. 176 euro 17.50), in cui racconta la storia di un illustratore di successo che rientra nella sua Napoli per prendersi finalmente la responsabilità di accudire il nipote, riuscendo, fra mille peripezie a creare un legame d’affetto che lenisce i rimpianti, mentre il matrimonio della figlia va in pezzi.

Daniele Mallarico ha conosciuto il successo lasciando Napoli e vi fa ritorno per prendersi cura del nipotino Mario. Lo scherzetto è proprio ciò che gli riserva tornare sui suoi passi? In generale può essere pericoloso farlo, secondo lei?

«Fare i conti con ciò che ci siamo lasciati alle spalle è una necessità. Ciò che ci mette in pericolo non è volgerci indietro, ma fare del ritorno un regresso. La colpa di Daniele è che si è deciso tardi. I suoi giorni col nipotino napoletano invece che un’occasione di redenzione, rischiano di diventare una caduta rovinosa nella vecchiaia».     

Il tema di Taobuk è  Padri e Figli  ma in una società in cui il precariato è divenuto regola, non le sembra innaturale che spesso sia necessario ricorrere ai nonni e al loro aiuto per sopravvivere?

«Innaturale non so, ma drammatico sicuramente. A giocare coi miti, oggi dovremmo raccontare come Enea sgobbi portando sulle spalle il padre Anchise che, in quanto nonno pensionato, passa un po’ dei suoi pochissimi soldi al figlio stremato e un altro po’ ad Ascanio, nipote senza futuro. Il tutto mentre i rissosi dei dell’Olimpo non sanno nemmeno vagamente con quale nuova città sostituire Troia in fiamme e perciò ogni giorno, a Est e a Ovest, se le danno di santa ragione».  

Posso chiederle se lei è fiducioso nei confronti dell’avvenire?

«Tendo al pessimismo volenteroso. Come a dire: le cose vanno malissimo, ma finché c’è vita c’è speranza». 

Recentemente ha scritto su Internazionale che anziché affidarci ai profeti del video, ai comunicatori tv, dovremmo recuperare l’arte della politica, “curarsi del prossimo, allontanare il nulla”. Cosa intende?

«Intendo che la politica è prendersi cura degli altri, perché se negli altri non ci si specchia si è niente. Ma i grandi comunicatori televisivi si specchiano soltanto nei monitor, nello share e nei sondaggi, e così il niente dilaga». 

Facciamo un passo indietro, in “Lacci”, Vanda ad un certo punto afferma “non sapevo quanto è casuale l’attrazione”. Ma in generale, è più rassicurante credere di essere artefici del nostro destino o che tutto sia affidato al mero caso?

«Siamo animali che fabbricano senso. Se la fabbrica chiude, ci spaventiamo. Guardi come ci affanniamo a raccontarci la nostra vita per filo e per segno: darle coerenza, anche la più terribile, ci acquieta. Solo quando il racconto diventa un balbettio insensato, comincia lo sgomento».

In “Lacci” nella quarta spicca la frase, “che cosa lasciamo, quando lasciamo qualcuno?”. Lo chiedo a lei, abbandonare le certezze e dare per scontato il partner può essere la via per una nuova felicità?

«Felicità è una parola grossa. Diciamo che vivere nella certezza tiene a bada l’angoscia e ci fa contenti. Il problema è, casomai, quando la certezza cambia faccia e diventa caduta della curiosità, cioè noia. Allora ci affidiamo all’illusione di nuove curiosità e di rinnovate certezze. A una storia segue una storia e poi un’altra ancora, una trafila che accorcia sempre più la distanza tra la gioia e la disperazione. La cosa migliore è una curiosità sempre viva per gli affetti che abbiamo.  Però la carne è debole».

Infine, Aldo torna a casa, da Vanda, pur amando un’altra donna, condannandosi all’infelicità. Perché?

«Perché è un uomo sostanzialmente prudente. Perché la responsabilità prevale sull’amore. Perché teme che la passione nuova si stia indebolendo e ha paura di restare solo. Perché il clima culturale che gli ha dato la forza di lasciare moglie e figli ora è in via di esaurimento e il legame con la famiglia riprende forza. Ma è il lettore che deve trovare il percorso di lettura più suo». 

Ma narrare le storie, dar voce ai personaggi, per lei cosa significa? Una salvezza, una necessità magari?

«Non so. Forse è solo un sollevare veli, un tentativo di vedere meglio».

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