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Quattro precedenti, due articoli della Costituzione, una verità

Quattro precedenti, due articoli della Costituzione, una verità

No, non è un inedito né tantomeno “alto tradimento” l’altolà del Quirinale a un ministro indicato dal premier incaricato. Anzi, proprio per prevenire le contestazioni dei rivoluzionari delle “piattaforme social”, qualche giorno fa Mattarella aveva evocato precedenti storici che, insieme con i dettami della Carta (articolo 92), legittimano le bocciature di persone “inadeguate” a insediarsi in uno dei dicasteri.

E nei giorni in cui vanno di moda gli “avvocati del popolo” che ambiscono a Palazzo Chigi, al capo dello Stato è toccato ribadire di non essere un semplice “notaio”. Ricordando inoltre il “caso illuminante” di Einaudi, il quale, dopo le elezioni del 1953, si avvalse del potere di nomina del presidente del Consiglio non ritenendo di assecondare «le indicazioni espresse dal principale gruppo parlamentare, quello della Dc». L’economista di Carrù era consapevole che «solo una società libera e robusti contropoteri avrebbero impedito abusi» e il «rispetto delle regole della Costituzione».

Ma andiamo ai ben quattro precedenti. Nel 1979 Pertini chiese a Cossiga (senza rendere pubblica la diatriba, poi rivelata dall’allora presidente del Consiglio in pectore) di non insistere sulla nomina alla Difesa del democristiano Clelio Darida. E il Capo dello Stato, che probabilmente non ritenne all’altezza di quel ruolo l’ex sindaco di Roma, non fu “costretto” a motivare urbi et orbi il perché della sua scelta. Il secondo “aneddoto” si inquadra nell’ambito dell’ormai proverbiale “conflitto di interessi” di Berlusconi: nel 1994 Scalfaro rifiutò la nomina alla Giustizia del legale del Cavaliere, Cesare Previti. Quest’ultimo, tra l’altro, durante la campagna elettorale aveva scatenato le polemiche proclamando: «Quando vinceremo le elezioni non faremo prigionieri».

Il terzo episodio risale al 2001: Ciampi preferì non assegnare il ruolo di Guardasigilli a Roberto Maroni. Indispettito, ma senza gli eccessi dei masanielli odierni, il leader del Carroccio Umberto Bossi stigmatizzò come “imbarazzante” il veto, dettato certamente dal fatto che Maroni (poi prosciolto), insieme con altri leghisti, era sotto inchiesta per resistenza a pubblico ufficiale per essersi opposto alle perquisizioni richieste dal procuratore di Verona Guido Papalia. Più recente (2014) l’ultimo caso, quando Napolitano chiese a Renzi di non inserire nella sua lista l’allora procuratore di Reggio Calabria Nicola Gratteri: la sua nomina avrebbe violato la regola “non scritta” secondo cui un magistrato in attività non può assumere l’incarico di ministro della Giustizia.

Tornando ai giorni nostri, piaccia o no, siamo vincolati alla moneta unica anche dalla Costituzione. L’articolo 75 addirittura non ammette il referendum su leggi “di autorizzazione a ratificare trattati internazionali” come quello sancito a Maastricht). L’articolo 117, inoltre, sancisce che «la potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali».

Per questo non è un semplice “capriccio” del Colle, nel suo ruolo di «tutore dell’osservanza della legge fondamentale della Repubblica», essersi opposto a chi, come Paolo Savona, a più riprese ha definito l’euro un «cappio al collo» dell’Italia e l’Ue un’organizzazione «viziata da una innata ingiustizia». Senza precedenti, semmai, è il comportamento dei due “premier ombra” Salvini e Di Maio: l’incomprensibile irrigidimento sul nome di un singolo ministro dopo aver decantato per settimane la priorità del programma condiviso nel “contratto”.

Per evitare di fare la figura degli “statisti dell’ultima ora”, urlando al golpe e aizzando la folla, a chi si propone alla guida del “cambiamento” basterebbe informarsi, ripercorrere le cronache politiche e confrontarsi con le regole del gioco. Non basta, infine, proclamare la “Terza Repubblica” per stravolgere gli ordinamenti, ma bisogna anche riscriverli in Parlamento (non a caso la nostra Costituzione è definita “rigida” in quanto, a differenza delle forme “flessibili” in vigore in altri Paesi, le sue disposizioni per essere modificate necessitano di procedure più complesse rispetto alle leggi ordinarie).

Ricorrendo (strumentalmente) a reazioni scomposte, piagnistei e analisi deliranti della realtà, si finisce con il confermare la fondatezza delle preoccupazioni di chi è tenuto a tutelare gli equilibri di un Paese in difficoltà sì, ma non ancora sull’orlo del baratro.

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