C'è modo e modo di vincere. Così come c'è modo e modo di perdere. “If you can meet with triumph and disaster and treat those two impostors just the same […] And—which is more—you’ll be a Man, my son!”. Tradotto dalla lingua di Joseph Rudyard Kipling (poeta inglese che scrisse questa frase nel 1895) a quella di Boccaccio: “Se sei capace di incontrarti – con il Trionfo e con il Disastro e di trattare questi due impostori appunto allo stesso modo […] sarai un vero uomo, figlio mio!”. Un'eredità filosofica che vale tanto oro quanto pesa, anche oggi. Soprattutto oggi, in una società che non è in grado di gestire le vittorie e le sconfitte. E non si pensi solo alla Coppa del mondo, all'Olimpiade o a un talent musicale. L'incapacità riguarda anche le piccole gioie e i piccoli fallimenti quotidiani. Il compito degli adulti, sulla carta più avvezzi a determinati tipi di sofferenze e momenti di giubilo, sarebbe quello di aiutare le giovani leve a dare il giusto peso alle emozioni, per quanto siano travolgenti. Sulla carta, dicevamo, perché poi nella realtà ci meravigliamo se una ragazza o un ragazzo cercano di sorridere davanti al dolore, non si strappano i vestiti di dosso per un successo o non brontolano e si dimenano quando incassano un'ingiustizia.
E allora ben vengano le lezioni impartite da un ragazzo di 22 anni e da una di 19 in occasione dell'Olimpiade in corso a Parigi. Il primo, Filippo Macchi, nonostante l'assist offerto da tecnici, commentatori, giornalisti, tifosi, massaie, leoni da tastiera, ecc. ecc. non è caduto nel tranello di attribuire all'arbitro tutte le colpe per la sconfitta in finale: “Ho 22 anni, una famiglia stupenda, degli amici strepitosi e una fidanzata che mi lascia costantemente senza parole. Sono arrivato secondo alla gara più importante per ogni atleta che pratica sport e proprio perché pratico questo sport ho imparato che le decisioni arbitrali vanno rispettate, sempre! Conosco entrambi gli arbitri, non mi viene da puntare il dito contro di loro e colpevolizzarli del mio mancato successo anche perché non porterebbe a nulla se non a crearmi un alibi. Quello che è successo appartiene al passato, ormai è andata, quello che succederà in futuro dipenderà da me!”. Ha scritto in un post celebrativo dopo aver conquistato la medaglia d'argento. Un pugno dritto nello stomaco di chi invocava sommessamente la vendetta verbale nei confronti di quell'arbitro “in mala fede”.
L'altro capolavoro è a firma di Benedetta Pilato che, dopo aver mancato per un centesimo il bronzo olimpico, si è presentata ai microfoni degli intervistatori grondante lacrime di gioia. Prima la giornalista, poi l'opinionista in studio, l'hanno fatta sentire una ragazza “fuori di testa”, solo perché non hanno potuto giocare il ruolo - non attendevano altro, evidentemente, - di persone persone empatiche pronte a darle un bacino sulla fronte e propinarle la massima del giorno: “Sei stata grande lo stesso... servirà per crescere... la prossima volta andrà meglio”. Già, perché si sono trovate di fronte una persona felice, nonostante la sconfitta. Quasi come se si debba necessariamente imprecare o sentirsi dei falliti per non aver raggiunto il traguardo.
E dunque le vere lezioni parigine le hanno fornite loro: 22 e 19 anni. C'è speranza, c'è futuro ben oltre un sistema che ci vorrebbe tutti allo stesso modo. E che, quasi, si offende e “rabbrividisce” se c'è chi lo sfida, facendosi beffe delle convenzioni.
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