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Wenders e lo ‘stare’ nel mondo. L’ultimo capolavoro del regista: “Perfect Days”

Scrive Wim Wenders nel libro «In Defense of Places» (2005), mai pubblicato in italiano: «Cos’è, secondo voi, ciò che guida un film? ... Qual è la forza motrice di un film, il suo ingranaggio principale, la sua anima? Che cosa dirige il suo corso? Che cosa gli conferisce energia?». Nel cinema contemporaneo, dice Wenders, tale forza deriva dalla story. Registi, scrittori, produttori lavorano talvolta per anni per sviluppare la story. E gli attori affidano i loro nomi ad un progetto, perché credono nella story, ben più che nel regista, o nel budget, o in qualsiasi altra cosa. La story è il più grande eroe dei film contemporanei. Gli attori sono interscambiabili, il regista anche, tutto, tranne la story, dice quasi testualmente Wenders. Le storie, d’altro canto, dice Wenders possono essere al servizio d’un’altra “forza” che ha il poter di dirigere il film. Sta parlando «dei luoghi». Places, Schau-Plätze, locations. I “luoghi”, come soggetto, hanno un’attenzione bassa, e sono solitamente dati per scontati, ma Wenders si dichiara decisamente contro questo punto di vista. «Vorrei spezzare una punta di lancia a favore del luogo, e parlare del senso del luogo, come una facoltà che sta andando perduta, e un nostro senso, certamente, di saper stimare i luoghi. […] La gente è rappresentata da agenti ed avvocati, e vi sono unioni che difendono i loro interessi. I luoghi non hanno avvocati, invece. E io voglio assumere tale ruolo».
Il suo unico mestiere è il viaggiatore, andare nei luoghi dove non è mai stato, vedere un’abitazione, finestre illuminate, ombre che si muovono dietro di esse, e così la sensazione irresistibile di sapere tutto di quel posto: come vi si vive, come trascorrono le stagioni, come quelle persone trascorrono le proprie vite, come si divertono e di cosa si preoccupano. Per «Il Cielo sopra Berlino» non aveva alcuna storia, alcun indizio, non aveva neanche i personaggi, aveva solo il desiderio di scavare a fondo in quel posto. Avvertiva che la città voleva esser trasformata in un film, usandolo come strumento. Il luogo (statue, archi, angeli) gli hanno dato la storia. La città aveva imposto i protagonisti. La storia o la “non storia”. Forse qualcosa del genere accade per l’ultimo film, «Perfect Days» (candidato all’Oscar per il migliore film internazionale).
Il film nasce dall’iniziativa dell’amministrazione di Shibuya – uno dei 23 quartieri speciali di Tokyo – che affida a Wenders un documentario sul «Tokyo Toilet Project», la creazione di diciassette bagni pubblici disegnati da celebri architetti internazionali. Wenders abbandona l’idea del docu e decide di fare un film. Tokyo, le sue arterie, le sue sopraelevate, le sue periferie, i locali, le panchine, i grattacieli, gli alberi dei parchi, i bagni nuovi consegnano la storia al regista.
«Sono i luoghi a sviluppare le storie e a farle accadere. Infatti non è vero che le storie “succedono” semplicemente, ma esse, letteralmente, “hanno luogo” (ancora una gran bella espressione: “hanno luogo!”)». Le locations avevano trovato la storia, e non viceversa. Il film racconta i giorni perfetti di Hirayama (il bravissimo Koji Yakusho, premiato come miglior attore a Cannes), addetto alla pulizia dei bagni pubblici di Tokyo che vive in una piccola casa, si alza sempre allo stesso orario, guarda la luce-ombra del mattino, scende in strada, prende il caffè, sale sul suo furgone e fa il percorso per raggiungere i bagni, con una cura rituale, come se da quell’attenzione e da quello scrupolo dipendesse il destino del mondo. Una vita di gesti minimi, sempre uguali. I giorni, le ore, le notti, i luoghi, la casa vengono raccontati, più volte, con inquadrature diverse, ripresi con vari obiettivi, suddivise in spazi-tempi simili e cangianti. Niente sembra accadere, tutto sembra scorrere uguale, ma intanto passano i giorni e passa la vita perché «adesso è adesso e un’altra volta è un’altra volta», come dice l’uomo alla nipote. Né c’è un commento musicale. Ascoltiamo il rumore dell’alba, dell’acqua, delle macchine, degli alberi. La musica egli ascolta Hirayama diventa la nostra musica, la colonna sonora del film.
Wenders, in quasi tutti i suoi film, ha “suonato e cantato” la musica dei protagonisti e dei personaggi, perché restituisce ai luoghi la loro essenza, quel carattere peculiare che li rende unici e protagonisti dei film. Qui è evidente come Wenders affida a Hirayama la musica da lui amata. La musica conferisce un colore locale, intimo, privato alle giornate di Hirayama, che, scopriamo, ha fatto una scelta oppositiva, alternativa, vive una vita non omologata e frenetica in una delle capitali della globalizzazione. E Wenders confessa un percorso simile: «Il rock'n'roll mi ha fatto sopravvivere alla dolorosa età della pubertà. Ha dato un punto focale ai miei vaghi ma intensi desideri. […] Se non fosse stato per i Kinks, i Troggs, i Pretty Things, gli Stones, i Beatles, Van Morrison e, più di ogni altro, Bob Dylan, io non avrei mai sfidato il destino mollando i miei studi per basare il mio futuro in quell'incerto territorio chiamato “la mia creatività”. La loro musica era contagiosa. Ma non nel senso "Hey, lo posso fare anch'io!", piuttosto un “Se non lo faccio adesso, non lo farò mai"».
Difficile sottrarsi alla sensazione che Hirayama somigli a Wenders: i due hanno in comune lo stesso amore per la fotografia, le vecchie macchine digitali, per i tempi della fotografia, per l’attesa o l’inquietudine con cui vogliono catturare la luce e le ombre. Wenders ha raccontato: «Come fotografo, puoi star da solo davanti ai luoghi. Non c’è bisogno di tante persone attorno a te. Non c’è bisogno di un assistente che grida: Silenzio! Lì c’è già silenzio. Così posso stare lì ed ascoltare. Posso usare la mia macchina fotografica come un registratore, catturare sicuramente i suoni del luogo, ma più di tutto, catturare il luogo che racconta la sua story e la sua storia».
I luoghi sono sempre reali, è possibile camminarvi o giacere sul terreno, ma non è possibile portar via con voi il luogo. Un luogo non può appartenere a nessuno, neanche alla macchina fotografica. «I luoghi hanno un pensiero, una memoria… Forse è per questo che fotografo soprattutto luoghi: non meramente per dar un’immagine scontata di essi, ma per appellarmi alla loro abilità di rimembrare, affinché non si dimentichino di noi!».
I luoghi, le musiche, i “caratteri”. L’altra fonte delle storie. Hirayama è un personaggio stupefacente. Le “facce” che fa nella sequenza finale del film, quando sfreccia col suo furgone mentre su Tokyo sorge l’alba e Nina Simone canta «Feeling good», mostrano il “carattere” d’un individuo, insieme pacificato e inquieto, triste e gioioso, in cerca d’un nuovo senso di sé, del luogo, della vita. Piccole grandi, mobili ripetitive, azioni compiute, con responsabilità e cura, nell’eterno scorrere dell’adesso. Così, forse, potremmo salvarci. In questo periodo in cui nessuno sembra sapere «dove è», Wenders-Hirayama ci suggerisce un altrimenti quotidiano, la necessità di un nuovo senso dell’abitare e dell’esserci, dello «stare» nel mondo, dovunque viviamo.

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