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La leggenda Frida Kahlo molto oltre le opere: anche in una sala multimediale 10D

In tutto il percorso, molto variegato, emerge quel “caos dentro” del titolo ispirato da Nietzsche

Frida Kahlo

Il mito innanzitutto. Quindi la donna e l'artista. “Frida Kahlo. Il caos dentro”, in scena (non è un errore, l'idea di base è più quella di uno spettacolo che di una mostra) nella Fabbrica del Vapore (riaperta fino al 25 dopo il blocco causato dal covid), è un'esposizione documentaria, che non ci vuol far vedere le opere con lo stile di un museo, ma le ripropone attraverso riproduzioni realizzate con la tecnica di retroilluminazione midlight e con la possibilità digitale di portarle a grandi misure e di renderle animate. Insomma, se siete puristi dell'arte evitate con cura questo luogo, se invece vi avvicinate con cuore bambino (come entrare in un giocoso luna park della vita) e con la curiosità di capire come quando e perché questa donna è diventata un mito, allora siete nel posto giusto.

Comprenderete, anzi comprenderemo, perché Frida (1907 - 1954) abbia sempre ostentato (negli autoritratti pittorici e nei ritratti fotografici, qui ci sono gli scatti celebri di Leo Matiz) i baffetti e le sopracciglia così folte da essere unite in centro. E perché nell'autoritrarsi abbia messo spesso in primo piano la rappresentazione iconica di essere martire - prima della poliomelite contratta da bambina e poi, a 18 anni, del terribile incidente del tram su cui viaggiava, che le fece subire oltre 30 operazioni - e, insieme, donna a tempo pieno (artista, femminista, moglie, amante, rivoluzionaria, etnologa del suo Messico e altro ancora). Lei era oltre il body shaming del suo tempo, che pur relegava le donne in ultima fila, sapeva essere passionale ed erotica, perché la sua personalità superava le categorie e le banalità che spesso hanno circondato il corpo femminile.

La sua tormentata storia d'amore con il muralista Diego Rivera (costellata da tradimenti, prima di lui e poi reciproci - lei anche con Trotsky - e la celebrazione di due matrimoni) ne ha fatto anche un esempio di fascino, in cui la bellezza è emanata anche dallo sguardo, dall'atteggiamento, dal modo e dalla gioia di vivere. Tanto che il suo corpo appariva bello quanto la sua intelligenza. Ha scritto: «Non sono malata. Sono rotta. Ma sono felice, fintanto che potrò dipingere». La mostra curata da Antonio Arévalo, Alejandra Matiz, Milagros Ancheita e Maria Rosso, prodotta da “Navigare” con il Comune di Milano e con la collaborazione del Consolato del Messico (fra gli sponsor l'azienda vinicola messinese Tenuta Rasocolmo), racconta tutto questo e lo fa in modo interessante, anche quando adotta la tecnica del falso più vero del vero (anche qui avvertenza per i puristi: state alla larga). Una sezione, infatti, è dedicata alla ricostruzione meticolosa di tre ambienti. Anzitutto la stanza di Frida con il letto a baldacchino e lo specchio che utilizzava per potersi ritrarre anche quando era immobilizzata. Sul letto uno dei busti che lei doveva indossare per stare in piedi. La camera è arredata con oggetti tipici della cultura messicana, tra cui sculture di pietra e pupazzi di cartapesta, con quadri e fotografie fedelmente riprodotti, libri, mobili e le stampelle. Poi c'è l'Atelier che presenta lo studio della pittrice realizzato nel 1946 al secondo piano di Casa Azul: lo scrittoio e la scrivania con le boccette dei colori e i pennelli, il diario, la sedia rossa impagliata, la scatola con i gessetti colorati, la sedia a rotelle e il grande cavalletto con una natura morta. Le finestre, incorniciate da muretti in pietra, riproducono la vista del giardino, oggetto della terza ricostruzione. Qui è l'area lussureggiante di vegetazione che Frida curava e nel quale abitavano vari animali come scimmie (immortalate nei suoi dipinti) e pappagalli.

In tutto il percorso, molto variegato, emerge quel “caos dentro” del titolo che i curatori fanno partire da una frase di Friederich Nietzsche, che sembra scritta apposta per Frida Kahlo: «Vi dico: bisogna ancora portare in sé un caos per poter generare una stella danzante». E le sezioni della mostra saltano da un argomento all'altro in maniera tumultuosa, aggiungendo i costumi etnici del Messico (che lei indossava nei quadri e nelle foto), le canzoni tradizionali, le immagini dei murales di Rivera e dei suoi amori extraconiugali, le lettere di Frida al marito (i due appaiono anche nella proiezione di un documentario), i francobolli di tutto il mondo dedicati alla pittrice, i busti in gesso rielaborati da artisti contemporanei.

E l'artista? L'opera originale esposta è una sola: “Chiedono aeroplani e gli danno ali di paglia”, dipinta nel 1938 e ripresa dall'originale “Niña con aeroplano”, andato perduto. È una ricostruzione simbolica e dolorosa dei giochi di gioventù bloccati dalla poliomelite. Il visitatore, invece, può giocare fino in fondo, entrando alla fine in una sala multimediale 10D, una sorta di montagne russe in sedicesimo, dove si rivive drammaticamente la scena dell'incidente del tram e altri percorsi seduti su una sedia che sobbalza e che, volendo giocare a tutti i costi, ci allontana da ciò che vorrebbe celebrare. Ma è la conclusione di un percorso vario e talvolta non appassionante, pur sempre in grado di dimostrare che il mito di Frida è tuttora inossidabile e indistruttibile.

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