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La mostra di Kandinskij a Rovigo: le guerre passano, la bellezza rimane

Un genio (russo) che compone in una sintesi mirabile suggestioni e appartenenze

Vien da dire che ci sono mostre che non accadono per caso, ovvero che hanno un loro perché che si scopre a inaugurazione avvenuta. E per quanto, come in questa occasione, la mostra sia già di per sé un evento assoluto, la coincidenza con l’avvenimento infame che è una guerra, stupida inutile e dolorosissima come tutte le guerre, lo fa rivestire di un’importanza diversa e fondamentale, che non può sfuggire a chi sa come la cultura sia costruita da ponti e da scambi, da sodalizi e abbracci di idee.

Ecco, oggi una mostra dedicata a Vasilij Kandinskij (Mosca, 1866 – Neuilly-sur-Seine, 1944) ha davvero un significato che trascende l’esposizione, è un simbolo, evidente e non smentibile, di come un grande artista sia di per sé un “oltre” rispetto a qualunque idea di conflitto. Non solo perché il pittore russo – e anche assolutamente europeo – ha saputo scavalcare meglio di ogni altro il confine della sua arte per cogliere ispirazione e qualità da musica, filosofia, poesia e altro ancora, ma perché la sua vita e le sue opere sono la rappresentazione di un superamento di confini geografici, di considerazioni localistiche e di opinioni che si limitino a inutili implosioni.

“Kandinskij. L’opera/1900-1940”, nel Palazzo Roverella di Rovigo, fino al 26 giugno, è curata da Paolo Bolpagni ed Evgenia Petrova, è promossa dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo in collaborazione con il Comune di Rovigo, l’Accademia dei Concordi, il sostegno di Intesa Sanpaolo ed è prodotta da Silvana Editoriale, che ha curato anche il catalogo. Una mostra importantissima, che tra l’altro ospita parecchie opere di proprietà di istituzioni russe, le quali – nonostante i timori – al momento non le hanno richieste indietro.

Per capire appieno il suo messaggio (non programmato perché nessuno voleva credere a una guerra in Europa), secondo me, occorre rivalutare il concetto di sincretismo culturale, una parola che, come molte di quelle che finiscono in «ismo», vengono considerate in negativo, tanto più questa dopo la battaglia di Papa Ratzinger contro il sincretismo religioso. Ma se nelle fedi ognuno si ritiene depositario dell’unica verità assoluta, la cultura trova nelle contaminazioni, nell’osmosi tra le diversità il suo naturale concime, indice di fecondità, di nuove idee, di rappresentazione (insieme con la scienza) dell’ingegno umano.

Il sincretismo è appunto l’incrocio creativo tra culture e nessuno meglio di Kandinskij riesce a rappresentarlo. Lui è assolutamente russo, tanto da aver scoperto l’importanza della spiritualità (sempre rimasta alla base delle sue opere) in un’avventura etnografica giovanile nel 1889 in un piccolo governatorato del Nord, in missione per studiare il diritto rurale. Lì gli si apre il mondo semplice ma pure profondamente spirituale dei sirieni, popolazione un po’ russa e un po’ finnica, legata a tradizioni sciamaniche e al concetto degli “ort”, spiriti buoni che abitano l’aria. Il loro mondo, pieno di colori, lo aiuta a lasciare gli studi giuridici per affrontare la pittura, una storia che lo ha fatto diventare uno dei padri dell’astrattismo.

Dopo vari viaggi (in Europa naturalmente, a Monaco di Baviera studia pittura dal 1896) nel 1908 si stabilisce a Murnau in Germania, dove nel 1913 è al centro dell’avventura artistica del gruppo “Il Cavaliere Azzurro”. Trascorre un periodo in Svizzera e poi alla fine del 1914 rientra a Mosca, dove vive il periodo della rivoluzione, con cui collabora. Ma la sua non può mai essere arte di regime e nel 1921 torna in Germania, dove insegna al Bauhaus, prima a Weimar poi a Dessau, e dove ottiene la cittadinanza tedesca. Nel 1933, davanti al prevalere del potere di Hitler, insieme con la moglie Nina si trasferisce in Francia. Prende la cittadinanza francese, non accetta l’invito di trasferirsi in America e lì rimane, senza mai dimenticare il fascino della sua amata Mosca.

Ho riassunto queste vicende perché, attraverso Kandinskij, danno la rappresentazione netta di come la cultura russa, pur con le sue nette caratteristiche, sia parte integrante di quella europea. E la mostra che mette insieme ben ottanta opere di Kandinskij, oltre a molte altre di suoi amici (per esempio, Paul Klee e il musicista-pittore Arnold Schönberg), ci indica un percorso pittorico in cui il sincretismo, nella migliore accezione del termine, è determinante.

Vediamo le sue prime opere figurative, sia quelle legate alla tradizione delle icone russe sia le altre che partono dalle pennellate del postimpressionismo; c’è una Mosca ritratta come non l’immaginiamo, con panorami di case colorate; c’è una magnifica sezione dedicata ai dipinti su vetro realizzati nel 1918, che si rifanno alle antiche fiabe russe; c’è l’esplosione dell’astrattismo e delle forme geometriche, mai però così drastiche come in Mondrian o in Malevič; c’è nell’ultimo periodo francese un’espressione direi lirica di linee più giocose.

La sua avventura umana e artistica dimostra che nella storia non ci sono stati né Hitler né Stalin né altri come loro che tengano. Tutti i dittatori finiscono, prima o poi, mentre l’arte rimane, è sempre accesa e capace di trasformarsi. Come i colori di Kandinskij e come la mostra di Rovigo dimostra.

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