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Strage di Capaci, le vere ferite dei sopravvissuti. Trent’anni di misteri e dolore

Negli ospedali in cerca dei testimoni delle stragi fra sgomento e rabbia I sospetti di collusioni e depistaggi per impedire di scoprire la verità

La corsa verso casa per recuperare la Vespa e raggiungere l’ospedale Cervello, dove erano stati trasportati i superstiti della strage di Capaci. Quel maledetto sabato pomeriggio del 23 maggio di trent’anni fa non ero in turno al giornale e, consapevole di potere offrire un contributo alla ricostruzione di una delle pagine più buie della storia del Paese, chiamai la redazione con un telefono fisso (i cellulari non c’erano ancora per tutti) per sapere se c’era bisogno di una mano. Il redattore capo mi disse di mettermi subito all’opera, di trovare i testimoni e di raccogliere i loro racconti. Tra barelle sporche di sangue, voci concitate e tensione alle stelle, raggiunsi le stanze del pronto soccorso e i feriti. E appresi la notizia che Giovanni Falcone si trovava alla guida della blindata, al posto dell’autista giudiziario Giuseppe Costanza, scampato miracolosamente all’attentato. Tutto il Giornale di Sicilia, dov’era stata appena inaugurata la nuova rotativa, fu coinvolto nella storia con un impegno corale per offrire ai lettori un’informazione ampia e approfondita. Attendemmo sino a notte fonda l’uscita della prima edizione e, dopo poche ore di pausa, di nuovo in strada per un nuovo giorno alle prese con la cronaca, con una tecnica di lavoro e un modo di interpretare il mestiere in cui la vita delle redazioni, che erano nella fase di transizione tra l’uso dei computer e l’abbandono delle macchine per scrivere, aveva un’atmosfera quasi romantica.

Trent’anni dopo quel giorno resta scolpito nella mia memoria e ha segnato profondamente la mia parabola professionale, che di lì a poco mi avrebbe portato a occuparmi stabilmente di cronaca nera in una Palermo che in quell’epoca aveva le sembianze dell’inferno. Cosa nostra già dalla fine degli anni Settanta aveva scagliato una offensiva sanguinaria contro i rappresentati delle istituzioni e portava avanti una strategia del terrore a suon di agguati e morti ammazzati, con la complicità di apparati deviati dello Stato grazie a un accordo politico-affaristico-mafioso che soffocava la Sicilia e la democrazia. Ai criminali era garantita l’impunità e non si spiegherebbero altrimenti le assoluzioni dei killer presi con le pistole fumanti dopo i delitti, le ultradecennali latitanze dei boss Salvatore Riina e Bernardo Provenzano, garanti di quei perversi accordi di potere ancora oggi insondati e avvolti dai misteri. E proprio le indagini sul quel contesto opprimente, condotte da Falcone e da Paolo Borsellino, assassinato con gli agenti della scorta in via D’Amelio poco meno di due mesi dopo la strage di Capaci, ancora oggi rappresentano il vero scenario sul quale fare piena luce. La verità sugli attentati del ’92 e del ’93 è ancora lontana e il Paese forse non sembra ancora pronto a ottenerla. Le ultime indagini hanno portato a galla storie di depistaggi, collaboratori di giustizia manovrati in un’epoca in cui pezzi dello Stato e mafiosi andavano a braccetto.

Amare le parole di Fiammetta Borsellino, la figlia del giudice Paolo, affidate ai giornalisti Alessandra Ziniti e Franco Viviano, autori del libro fresco di stampa Falcone e Borsellino, visti da vicino: «Non abbiamo più bisogno di sentenze di condanna che lo affermino e che tanto - purtroppo lo abbiamo ormai capito - non arriveranno mai. Per noi ormai sono chiare le connivenze, le omissioni, le menzogne, i depistaggi, le condotte sbagliate di uomini e donne delle istituzioni che non hanno avuto rossore a presentarsi in un'aula di tribunale e a balbettare monosillabi e sfilze di “non ricordo”. Ad essere offesi non siamo solo noi familiari ma l'intelligenza dell'intero popolo italiano. Lo diceva anche mio padre che il fatto di non riuscire ad arrivare ad una sentenza, che non si riescano a trovare le prove, non significa che non ci siano colpe. E credo che per politici o magistrati anche avere una sola ombra sulla testa sia una colpa».

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