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E (re)state a «Casa Berto»!

Quattro giorni fitti di narrazioni e ricerche, di condivisioni e scambi: il senso di un’eredità viva e che si rinnova

Non c’è niente che finisca, a Casa Berto. Qualcosa si può concludere momentaneamente, ma, come tutte le semine, prosegue in altra forma, con altri frutti. È il caso del Festival «Estate a Casa Berto», a Capo Vaticano, l’ottava edizione che si è chiusa domenica sera con due spettacoli bellissimi, ma che ovviamente continuerà, per chi è passato, durante le quattro giornate, dal giardino a picco sul tramonto: chi è stato chiamato a parlare, a esibirsi, a condividere, e chi è venuto a guardare, ad ascoltare, a fare domande. E il potere di quel luogo magnetico – scelto e fortemente voluto da Giuseppe Berto, e ora tenuto aperto e vivo dalla figlia Antonia con la sua splendida famiglia, e insieme con una “famiglia allargata” di artisti, scrittori, studiosi, giornalisti, ma anche, soprattutto, amici e sodali – è esattamente questo: prendere e lasciare, catturare particelle di senso, di bellezza, e rilasciare frammenti di gioia, di partecipazione, di riflessione. Con una certezza comune: questo luogo continua nel tempo ad accumulare le sue energie, in aggiunta a quelle telluriche e marine delle rocce, delle onde, degli alberi e cespugli.
Emanuele Trevi, lo scrittore premio Strega, raffinato esegeta di Berto e amico di questo luogo, ha portato qui prima che ovunque la storia nuovissima della sua “casa del mago”: i pianeti si sono allineati, dimostrandoci che le case magiche si parlano tra loro, come i libri, i conti amorosi coi padri si fanno sempre, sul lungo periodo, e in giro c’è abbastanza magia per sopravvivere, a patto di volerla, saperla guardare. E di sguardi, e di parole per raccontarli, ci hanno parlato Nick Ceramella e Raffaele Gaetano, a proposito di testi del passato che ci dipingono una Calabria antica ma non scomparsa. Perché in questo Festival la Calabria è la prima invitata e protagonista, tutta intera, del passato, del futuro: la Calabria disegnata da Edward Lear, che cercava il pittoresco e trovava il sublime (quel potente sentimento perturbante che ci viene non solo dal bello ma anche dall’orrido, da tutte le forme del meraviglioso, pure quelle deformi, e in questo la Calabria è territorio esemplare), la Calabria delle foreste, degli alberi secolari, di quelle aree «che sono la vostra ricchezza», ha detto il prof. Enrico Alleva, etologo di fama internazionale che ha raccontato degli adorni e dei greppi, dei lupi e degli orsi, e della nostra convivenza con le “altre menti”, quelle degli animali (sapete che ogni ape ha una biografia?).
La Calabria come set per una commedia familiare agrodolce, «Io e mio fratello» (su Prime Video), di Luca Lucini, tutta ambientata tra i vigneti e il borgo cosentino di Altomonte. Il giorno prima, le famiglia Scarpetta-De Filippo, nel film di Sergio Rubini «I fratelli De Filippo», a raccontarci – anche per bocca dell’attore Domenico Pinelli (che nel film era Peppino) – una cosa molto simile, del tutto diversa: che fatica, le eredità. Le somiglianze, le differenze. Ah, le famiglie, che croce e delizia, che condanna e che risorsa. La famiglia Berto, che conserva il fuoco – e lo ravviva costantemente aggiungendo altre idee, altre arti, altri amici – ma non adora le ceneri, è la testimonial principale di questo festival (co-diretto da Antonia Berto e Marco Mottolese) che conserva una natura amicale e pure ha un’apertura cosmopolita. Un festival che s’allarga, dalla letteratura alla cronaca, dalla narrativa al giornalismo, quello battagliero, caparbio, innamorato della verità di Andrea Purgatori: lo abbiamo risentito in video parlare di Ustica, uno dei “suoi” casi, e oggi sì ne parlano tutti, ma lui era stato il primo. Lo hanno ricordato due colleghi, Marco Antonellis e Giancarlo Loquenzi, “giornalisti residenti” del festival.
L’ultimo giorno è andato in scena “Smart Work” di Armando Canzonieri e Gianluca Vetromilo, anche regista, con Francesco Rizzo e Francesco Ferlaino (JVas), spettacolo proposto in forma di reading (la prima sarà nella prossima stagione teatrale). Il monologo divertente, amarissimo d’un “millennial” che ci racconta come la sua generazione sia alla base della piramide della precarietà, anzi sotto la base, incatenata a remare, senza diritti e tutele e senza prospettive, ma in un mondo in cui il problema non è soltanto salvare questa generazione, ma restituire per intero dignità al lavoro. Un gigantesco discorso etico e politico, come nella natura del Festival. Finale – apparente, come si diceva – di pura bellezza, con «Carne nuova»: la fascinosa Anna Ammirati che recita le parole da brivido di tre grandi poetesse (Cassian - Szymborska - Valduga), sulle musiche di Rodrigo D’Erasmo. Si è tanto seminato, per gli spettatori grandi e piccoli che hanno gremito lo spazio tra gli alberi e la roccia. E quindi, il Festival è finito, il Festival continua (5-8 settembre 2024).

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