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Cassazione: "Prendere per il collo la moglie con violenza è tentato femminicidio, anche se non ci sono ferite"

Prendere per il collo la moglie è tentato omicidio, o meglio, femminicidio. Anche in assenza di ferite. Non si tratta di lesioni o maltrattamenti ma, appunto, di tentato omicidio.

E’ destinata a fare scuola la sentenza della Corte di Cassazione che ha respinto le argomentazioni della difesa e confermato i dieci anni ad un uomo che aveva preso per il collo la moglie e l’aveva attaccata al muro. Obiettare l’assenza di ferite e la non volontà di uccidere da parte del marito, non cambia la sostanza: «Contano i potenziali effetti dell’azione».

«Una sentenza importante e un segnale significativo. La magistratura deve abbattere i muri alti della violenza e può fare molto attraverso le sentenze», commenta soddisfatta la presidente di Telefono Rosa Maria Gabriella Carnieri Moscatelli.

Il tentato femminicidio si era consumato a Brescia, con la vittima che aveva chiamato i carabinieri dicendo che il marito aveva tentato di strangolarla spingendola contro il muro e sollevandola da terra, facendola svenire per qualche attimo e offuscandole la vista. Parole confermate dal figlio della coppia che era andato in soccorso della madre, afferrando il padre sotto le braccia e costringendolo a lasciare la presa.

Alessandra Kustermann, oggi presidente di Svs Donna aiuta donna Onlus, ginecologa, primo primario donna della clinica Mangiagalli di Milano, plaude alla sentenza per diversi motivi: innanzitutto «dimostra in modo chiarissimo che la descrizione delle lesioni da parte dei medici che valutano in pronto soccorso una donna è fondamentale per arrivare a permettere alla donna, se decide di denunciare, di ottenere giustizia.

Il fatto che le lesioni sul collo della vittima fossero ben descritte, che fosse riportato che aveva dichiarato un offuscamento della vista e una momentanea perdita di coscienza hanno consentito di dimostrare che la forza esercitata dall’uomo nell’aggressione era tale da far presupporre che avrebbe potuto effettivamente ucciderla».

E ancora: «Nella mia esperienza di ginecologa che ha fondato il primo centro di violenza pubblico in un ospedale, questo è il punto fondamentale. Spetta a chi assiste per primo la vittima di un così grave reato mettere tutta la propria professionalità nella descrizione delle condizioni fisiche e psichiche della donna nel momento in cui arriva al pronto soccorso, così come è fondamentale che tutti quelli che documentano le parole dette dalla donna fin dal primo momento abbiano chiaro l’importanza di quello che stanno facendo. Ecco perché la formazione delle forze dell’ordine, medici, infermieri ma anche dei magistrati, ha un’importanza predominante. Come è scritta una sentenza dipende da tutti gli elementi che sono stati raccolti in fase istruttoria ma anche dalla capacità professionale del magistrato che la scrive».

Tecnico il commento di Annamaria Gatto, ex magistrato e volontaria di Svs Donna aiuta donna: «La corte ha dichiarato inammissibile il ricorso perché era fondarlo su motivi di merito non accoglibili in quella sede. L’uomo ha compiuto l’azione violenta prospettandosi che l’omicidio potesse succedere e ha agito accettandolo pienamente. Questa più che possibile conseguenza da lui è stata premessa e accettata. Non c'è niente di nuovo sotto il sole».

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