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Le parole del 2023: femminicidio la più tragica, ed ecco la più bella per il 2024

Il linguaggio di genere e la necessità di nominare per rispettare: dal "caso" in Parlamento all'Ateneo di Messina, verso una nuova stagione educativa

C'è una radicale, inarrestabile evoluzione linguistica tra le ragioni per le quali l'anno ormai chiuso verrà certamente ricordato. Una trasformazione straordinaria in ciò che di più "ordinario" utilizziamo, continuamente e democraticamente, quasi senza accorgercene: le parole.

Non un'evoluzione fisiologica, come quelle che si registrano con l'introduzione periodica, prima nell'uso comune e poi nei testi scientifici di riferimento, di neologismi e lessemi al cui "battesimo" assistiamo sempre con grande interesse, di pari passo con l'affermarsi di nuove necessità descrittive e con l'accantonamento di termini o locuzioni che non corrispondono più alla definizione corrente della realtà. E', invece, un processo parimenti legato ad un profondo cambiamento del sentire sociale, così dilagante da non poter più tollerare alcun difetto di rappresentazione, ma che si sta rivelando fortemente "patologico" nella sua capacità di scatenare conflitti, resistenze, pregiudizi e stereotipi. Destinati, però, ad essere inesorabilmente abbattuti, polverizzati.

E' il cambiamento di sensibilità che, come un velo caduto, rende ormai inaccettabile - eticamente, prima che grammaticalmente - definire una donna con termini maschili. Un cambiamento che desta ancora in taluni casi sorpresa, sconcerto "acustico", talvolta anche fastidio, in chi non resiste alla chiosa "benaltrista". Ma ormai è una traiettoria inesorabilmente e sempre più trasversalmente condivisa, anche al di fuori degli ambienti culturalmente più raffinati, dove è un tema prioritario da quasi quarant'anni, sin dal dirompente processo di Alma Sabatini al "Sessismo nella lingua italiana" del 1987 , mentre i vocabolari hanno sempre diligentemente registrato le corrette declinazioni di genere. Tanto evidenti quanto stabilmente ignorate, in particolare negli ambienti lavorativi e nei ruoli apicali, dove alla definizione maschile predominante si è andata associando anche una granitica percezione di prestigio e credibilità, infondata, ma ancora oggi dura a sgretolarsi. E se ciò poteva essere linguisticamente e socialmente non accettabile, ma quanto meno spiegabile quando era effettivamente irrisorio il numero di donne che ricoprivano alcuni incarichi, oggi, ormai, tale cornice quantitativa è ampiamente superata. E induce ad un altro tipo di ragionamento, che prescinde da ogni calcolo e va applicato in ogni ambito in cui sia necessaria un'azione di riequilibrio.

Il "caso" in Parlamento e la rettrice a Messina

Un "riequilibrio" così urgente da richiedere talvolta azioni plateali, come ha fatto nei giorni scorsi la deputata del Pd Maria Cecilia Guerra, che ha sconvolto il dibattito parlamentare sulla legge di bilancio rivolgendosi con l'appellativo di "Signora Presidente" all'esponente leghista Giorgio Mulè, di turno alla guida dell'aula. Con garbo e fermezza, tra le risentite rimostranze del collega, l'esponente Dem ha fatto riferimento ad un altro deputato, Marco Perissa, che ha chiamato "segretario" Elly Schlein: "Se a lui compete rivolgersi a una donna con appellativo maschile - ha spiegato Guerra a Mulè, qui il video https://youtu.be/14d95yjJPgU?feature=shared - a me è concesso rivolgermi a lei con un appellativo femminile. A meno che lei non richiami anche l'onorevole Perissa e tutti gli altri che si rivolgono a noi donne al maschile. Perché se lei tiene al suo genere, io tengo al mio". Da qui, una dialettica che si è rincorsa sui giornali, sul web e anche in tv, scivolando dalla connotazione etica a quella meramente politica, sull'operato e sul consenso della segretaria Pd e anche qui sul "benaltrismo" che la vorrebbe impegnata su più importanti fronti, e non su quello linguistico dal quale, addirittura, avrebbe persino ipotizzato una modifica dello Statuto del partito, che al momento contempla solo la definizione al maschile essendo stata l'unica richiesta fino ad oggi.

Una modifica che però, probabilmente, prima poi arriverà, come ne stanno arrivando molte altre: ad esempio, il recente decreto ministeriale di nomina della prof.ssa Giovanna Spatari a rettrice dell'Ateneo di Messina, la prima nei suoi 475 anni di storia, correttamente declina al femminile la carica, che come tale sarà ripresa e formulata in tutti gli atti legati all'amministrazione accademica peloritana del prossimo sessennio. Una conquista? Ma no, nulla di sensazionale: è solamente e doverosamente grammatica, come peraltro ha nei mesi scorsi ricordato l'Accademia della Crusca, nel famoso parere reso alla Commissione Pari Opportunità della Corte di Cassazione in cui ha invitato ad adottare "senza esitazione" la declinazione femminile non solo negli atti giuridici, ma in tutti gli atti delle pubbliche amministrazioni. Nella cui ufficialità, peraltro, non abbastanza è ancora cambiato, nonostante svariati "manuali di linguaggio" a quasi 40 anni dal lavoro di Sabatini, voluto dall'allora "Commissione nazionale per la parità e le pari opportunità tra uomo e donna" istituita presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri dove, attualmente, siede la prima donna premier, la quale, tuttavia, ha ufficialmente manifestato predilezione per la definizione al maschile: "il" presidente. Ripresa da chi non intende scontentarla e ignorata da chi non intende commettere errori di grammatica, o di etica.

Non una battaglia femminista, né femminile

Contrariamente a quanto molti sostengono, quella della corretta declinazione di genere non è una "battaglia" e non è "femminista", e men che meno femminile: sono moltissime le donne e sono moltissimi anche gli uomini che condividono questa preziosa sensibilità, legata all'oggettivo riconoscimento paritario dell'altrui identità. Una sensibilità che conduce a ritenere superata, anzi ormai intollerabile, la visione maschiocentrica dalla quale derivano arcaiche regole grammaticali come, ad esempio, quella del maschile inclusivo o sovraesteso, che detta la prevalenza della declinazione al maschile ritenendola comprensiva anche del femminile (gli studenti, i cittadini, i lavoratori, gli elettori) fino a giungere alla suprema definizione di "uomo", con tutti i suoi derivati lessicali, per rappresentare ogni altro genere di fatto così cancellato dalla sintassi. E, purtuttavia, sono ancora innumerevoli gli uomini, e, purtroppo, anche le donne che invece tale sensibilità del linguaggio "ampio" non l'hanno ancora maturata. "Sono solo parole", affermano, pensando che ci sia "ben altro" di più importante, e che non è questo il modo in cui garantire al genere femminile - e agli altri, richiamati talvolta con asterischi o schwa - la giusta rilevanza, il giusto rispetto sulla cui doverosità, peraltro, c'è generale concordanza. Ma nulla esiste se non ha un nome, e non si può invocare rispetto per ciò che non viene nemmeno nominato.

Femminicidio: parola dell'anno 2023 per Treccani

E di quanto sia persistente la mancanza di rispetto verso le donne - e verso le "diversità" in generale - abbiamo drammaticamente contezza ogni giorno, ogni minuto, e non solo seguendo le cronache, ma talvolta anche solo frequentando gli ambienti più comunemente vicini. Ambienti reali, ma anche virtuali, dove le parole sono il potentissimo, talvolta letale, strumento di un'interazione senza contatto in cui la distanza sfuma anche la percezione del danno. Ambienti, reali e virtuali, in cui spesso la discriminazione di genere non è palese, ma latente, endemica, scorrendo sotterranea, fino a sfociare in conseguenze tragicamente vere.

"Femminicidio" è il sostantivo scelto da Treccani come "parola dell’anno" per il 2023: una dirompente provocazione che nasce dall'empireo culturale dell’Enciclopedia Italiana e si scaglia come un fulmine divino sul nostro reietto tessuto sociale, ricordando quanto la lingua ne sia espressione al contempo modellante e modellata. Una "declinazione di genere" anche questa, drammaticamente necessaria per conferire un nome a ciò che conduce all'assassinio di una donna in quanto tale, per renderlo riconoscibile e, forse proprio per questo, annientabile.
Il termine - sostantivo di genere maschile, composto dal sostantivo femmina e dal suffisso cidio, derivante dal latino cidium, dal tema di caedere, ovvero tagliare, uccidere - è stato utilizzato nel 2004 dall'antropologa Marcela Lagarde per indicare la forma estrema di violenza di genere contro le donne, non un fatto isolato, ma l'ultimo di una spirale di odio (di "femmicidio" dall'inglese femicide, aveva invece parlato la criminologa Diana H. Russell nel 1992). Come spiega Valeria Della Valle, direttrice scientifica, assieme a Giuseppe Patota, del Vocabolario Treccani, il termine "femminicidio" è stato registrato nei Neologismi Treccani nel 2008, anno in cui fu richiamato nelle linee guida dell'Unione europea sulla violenza contro le donne. "Uccisione diretta o provocata, eliminazione fisica di una donna in quanto tale, espressione di una cultura plurisecolare maschilista e patriarcale che, penetrata nel senso comune anche attraverso la lingua, ha impresso sulla concezione della donna il marchio di una presunta, e sempre infondata, inferiorità e subordinazione rispetto all’uomo" è la definizione del vocabolario Treccani online. La scelta di questa parola come simbolo dell’anno 2023, spiega la Treccani, "rientra nell’ambito della campagna di comunicazione #leparolevalgono, volta a promuovere un uso corretto e consapevole della lingua" ed evidenzia l’urgenza di "porre l’attenzione sul fenomeno della violenza di genere, per stimolare la riflessione e promuovere un dibattito costruttivo intorno a un tema che è prima di tutto culturale: un’operazione pensata non solo per comprendere il mondo e la società che ci circondano, ma anche per contribuire a responsabilizzare e sensibilizzare ulteriormente lettori e lettrici su una tematica che inevitabilmente si è posizionata al centro dell’attualità". "Come Osservatorio della lingua italiana - sottolinea Della Valle - non ci occupiamo della ricorrenza e della frequenza d’uso della parola femminicidio in termini quantitativi, ma della sua rilevanza dal punto di vista socioculturale: quanto è presente nell’uso comune, in che misura ricorre nella stampa e nella saggistica? Purtroppo, nel 2023 la sua presenza si è fatta più rilevante, fino a configurarsi come una sorta di campanello d’allarme che segnala, sul piano linguistico, l’intensità della discriminazione di genere".

Già nel 2022, peraltro, il Vocabolario Treccani con la direzione Della Valle-Patota ha attuato una rivoluzione socioculturale nel sistema di classificazione, registrando anche le forme femminili di nomi e aggettivi che tradizionalmente si trovano solo al maschile. Una rivoluzione che riflette e fissa su carta "la necessità e l’urgenza di un cambiamento che promuova l’inclusività e la parità di genere, a partire dalla lingua". Cercando il significato di un aggettivo troviamo quindi lemmatizzata, ovvero registrata e quindi visualizzata in grassetto, anche la sua forma femminile, seguendo sempre l’ordine alfabetico (e non più di genere...): bella, bello; adatta, adatto. L’Istituto della Enciclopedia Italiana, dunque, è andato ben oltre l'astratto merito scientifico, offrendo un fondamentale concreto contributo all'equilibrio delle relazioni nel suo vocabolario, divenuto "lo specchio del mondo che cambia e il frutto della necessità di validare e dare dignità a una nuova visione della società, che passa inevitabilmente attraverso un nuovo e diverso utilizzo delle parole".

Giulia e la gentilezza, a scuola e non solo

E anche sull'uso corretto delle parole verteva il potente richiamo di Gino Cecchettin, nel discorso pronunciato al funerale della figlia Giulia, vittima di uno degli oltre cento femminicidi perpetrati in Italia del 2023. Da esso, e dall'impatto devastante che ha avuto sul pubblico, è scaturita una riflessione collettiva che ora, dopo l'attenuarsi dei clamori mediatici, si spera venga metabolizzata sedimentandosi, e dando i frutti auspicati da quel padre disperatamente pervaso dalla volontà di trasformare la tragedia in cambiamento. Una responsabilità educativa condivisa, quella auspicata da papà Gino, tra istituzioni, scuola, famiglie e anche organi d'informazione, chiamati a contribuire ad un modello sociale positivo attraverso una comunicazione rispettosa. E anche nel veicolare l'uso corretto del linguaggio - come richiede ad esempio il Manifesto di Venezia "delle giornaliste e dei giornalisti per il rispetto e la parità di genere nell'informazione" - la comunicazione giornalistica e in generale dei mass media ha un ruolo determinante, con un'efficacia pervasiva e modellizzante molto più forte di qualunque canale didattico.

Intanto, ad una nuova stagione educativa si prepara la scuola, chiamata dal Ministero dell'Istruzione ad istituire attività laboratoriali di "educazione alle relazioni", un primo passo - con auspici di potenziamento mossi da parte studentesca, in quanto al momento si tratta di ore extracurriculari, dunque facoltative - cui necessariamente devono seguirne altri più estesi e convergenti, perché non serve a nulla "educare" a scuola se poi fuori dalle aule i modelli familiari e sociali sono in contrasto. E la convergenza, dall'ambiente didattico a ogni altro, può puntare su una parola, una delle più belle del 2023, e di ogni altro anno precedente e successivo: quella gentilezza celebrata sin dalla Scuola dell'Infanzia in una delle più festeggiate (e significative, e utili) "Giornate internazionali", fissata il 13 novembre. Un concetto universale, riconoscibile, semplice, democratico, fondato sul rispetto e sull'empatia, sull'accoglienza della diversità e la convivenza dei differenti punti di vista. Su una consapevolezza delle emozioni, proprie e altrui, che non lascia spazio a sopraffazione e violenza. Un modo di essere, di vivere, di concepire le relazioni, con noi e con il mondo che ci circonda. Un argine alle discriminazioni, un antidoto al veleno che intossica i rapporti, un gesto contagioso che fa bene e che ci fa bene, moltiplicandosi. Un amabile sogno che chiunque, a suo modo, può trasformare in realtà.

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