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La rete di Messina Denaro, 7 condanne ad Agrigento

Inflitti 22 anni al boss ergastolano al 41 bis Giuseppe Falsone. C’è anche il poliziotto di Canicattì che diceva di “usare” un’avvocata per catturare il latitante

Sette condanne e due assoluzioni. Il boss ergastolano al 41 bis Giuseppe Falsone, secondo i giudici, aveva ripreso a comandare strumentalizzando il suo legale Angela Porcello che gli trasmetteva i messaggi all’esterno. Ventidue anni di reclusione è la condanna decisa nei suoi confronti. Due anni in meno rispetto alla richiesta del pm della Dda di Palermo, Claudio Camilleri. Condanne pure per gli altri affiliati della stidda e per il poliziotto Filippo Pitruzzella, accusato di concorso esterno in associazione mafiosa.

L’ispettore in servizio al commissariato di Canicattì – che ha sempre sostenuto di avere provato a «usare» l’avvocato Porcello per catturare, su incarico dei servizi segreti, l’ex superlatitante Matteo Messina Denaro, indagato nell’indagine – avrebbe pure messo in guardia l’imprenditore mafioso Giancarlo Buggea, compagno della Porcello (condannata a 15 anni e 4 mesi nell’altro stralcio), dal farsi vedere insieme a un altro collega – il poliziotto Giuseppe D’Andrea – perchè sapeva fosse al centro di attenzioni investigative.

Assoluzione invece per l’avvocato di Canicattì, Calogero Lo Giudice, finito a processo (e dimessosi dal ruolo di segretario della camera penale 4 anni fa, in seguito al suo coinvolgimento nell’inchiesta) con l’accusa di avere aiutato la collega Porcello a falsificare un timbro sulla data di un ricorso per evitare la condanna definitiva e l’arresto di un cliente. Accuse per cui il pm aveva chiesto la condanna a 2 anni e 4 mesi.

I suoi legali Antonino Gaziano e Salvatore Manganello avevano replicato sottolineando che non c’era stato alcun suo intervento nella vicenda contrariamente a quanto si ipotizzava dal contenuto di alcune telefonate intercettate alla «professionista boss». E poi ancora: 29 anni anni per Antonino Chiazza, 55 anni, di Canicattì, presunto boss della stidda (30 anni era la richiesta); 18 anni per Pietro Fazio, 52 anni, di Canicattì, presunto affiliato della stidda (24 anni); 28 anni per Santo Gioacchino Rinallo, 65 anni di Canicattì, anche lui ritenuto affiliato di spicco della stidda (25 anni); 22 anni per Antonio Gallea, 67 anni di Canicattì, presunto componente della stidda (20 anni); 12 anni e un mese per Filippo Pitruzzella, 64 anni, ispettore della polizia in pensione, accusato di concorso esterno in associazione mafiosa per avere fatto da «talpa» ad Angela Porcello e al compagno mafioso Giancarlo Buggea (11 anni). E poi ancora: un anno e sei mesi per Stefano Saccomando, 47 anni di Palma di Montechiaro, accusato di favoreggiamento (4 anni) e, infine, assoluzione per Calogero Valenti, 59 anni, residente a Canicattì, anche lui accusato di favoreggiamento.

Saccomando, produttore agricolo, è stato riconosciuto colpevole di avere mentito agli inquirenti e negato minacce da parte di Buggea e altri affiliati legati al prezzo di vendita di una partita di frutta. Tuttavia i giudici hanno escluso l’aggravante dell’avere favorito la mafia e la pena è stata sospesa.

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1 Commento

Davide Romano

13/01/2025 15:49

Trent'anni. Trent'anni di presa in giro allo Stato italiano. Trent'anni in cui Matteo Messina Denaro, l'ultimo padrino di Cosa Nostra, ha vissuto come un turista qualunque, permettendosi persino il lusso di farsi fotografare davanti all'Arena di Verona. Non un bandito in fuga, ma un signore della criminalità che si godeva la sua libertà sotto il naso delle istituzioni. La verità, amara come il fiele, emerge ora dai suoi diari personali, analizzati nel libro di Lirio Abbate. E che verità, signori miei. Dal 2003 al 2016, il boss più ricercato d'Italia scriveva tranquillamente le sue memorie, come un pensionato qualunque che tiene il diario delle vacanze. La differenza? Le sue "vacanze" erano una latitanza dorata, protetta da una rete di complicità che fa rabbrividire. Questi quaderni, ornati con le riproduzioni di Van Gogh - gusti raffinati, il nostro boss - erano destinati alla figlia Lorenza, che per 27 anni non ha voluto saperne di lui. Una figlia che lui cerca di conquistare con la sua "verità", scritta nero su bianco con la presunzione tipica dei potenti: "Solo io conosco la mia vita", dice. Come se trent'anni di stragi, sangue e crimini potessero essere riscattati da qualche pagina di memorie autografate. Ma la domanda che dovrebbe toglierci il sonno è un'altra: come è stato possibile? Come ha fatto un uomo, per quanto astuto, a sfuggire per tre decenni a uno Stato che si definisce moderno? La risposta è semplice quanto inquietante: non era solo. Dietro questa latitanza c'è una ragnatela di complicità che attraversa ogni strato della società italiana, dalle strade di Castelvetrano fino ai palazzi del potere. L'arresto nel gennaio 2023 e la morte a settembre hanno chiuso il sipario su questa farsa tragica. Ma attenzione: la cattura di Messina Denaro non significa che il sistema che lo ha protetto sia stato smantellato. Quella rete invisibile, tessuta con i fili della corruzione e dell'omertà, potrebbe essere ancora lì, pronta a proteggere il prossimo boss. I suoi diari, ora, sono come una confessione postuma che fa più domande di quante risposte dia. Sono la testimonianza di un potere criminale che ha riso per trent'anni della nostra giustizia, dei nostri valori, della nostra democrazia. E forse, ancora più grave, sono la prova che qualcuno, da qualche parte, ha lasciato che tutto questo accadesse.

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