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Botero: la mia Via Crucis
un fatto di cronaca
tra fede e blue jeans

di Vincenzo Bonaventura

“Via Crucis. La Pasión de Cristo”, la grande mostra di Fernando Botero a Palermo, è stata accolta con immediato entusiasmo e subito si sono formate lunghe file di visitatori.

Promossa dall’Assemblea regionale siciliana, dalla Fondazione Federico II (ambedue le istituzioni sono presiedute da Giovanni Ardizzone) e dal Museo colombiano di Antioquia (proprietario delle opere dopo la donazione dell’autore), l’esposizione (27 dipinti a olio e 17 disegni) è ospitata nelle Sale Duca di Montalto del Palazzo Reale fino al 21 giugno.

All’apertura il pittore colombiano non c’era. «Caro on. Giovanni Ardizzone – aveva scritto Botero in una lettera - sono molto dispiaciuto di non potere essere a Palermo per l’inaugurazione. A causa della mia età e del mio lavoro, mi muovo il meno possibile dalla mia base di Monaco. Sono però in contatto con gli organizzatori e sono disponibile a essere intervistato». Detto fatto. Una mail per stabilire il contatto e dopo poche ore squilla il telefono: «Buongiorno, sono Fernando Botero».

La sua disponibilità è piena e il dialogo è lungo. Parla con entusiasmo e si capisce subito che è una di quelle persone che ama il piacere della conversazione.

– La Via Crucis: una serie che per lei si trova tra novità (del soggetto) e continuità (delle forme). Anche se in catalogo il critico Conrado Uribe Pereira ricorda un suo Trittico della Passione del 1969. Era da allora che aveva in mente il soggetto sacro per eccellenza?

«Già negli anni Cinquanta ho dipinto soggetti sacri nel solco di tradizioni tipiche dell’America Latina. Confesso di non ricordare questo Trittico, ma questo tema che è stato così importante fra il Trecento e il Quattrocento mi ha sempre affascinato, anche se ai nostri tempi sembra quasi essere stato abbandonato. Ho lavorato 14 mesi alla serie perché lo ritengo un argomento necessario per l’arte e sono felice che venga esposto in una sede così bella come questa di Palermo».

– La domanda che le fanno tutti (e per questo è inevitabile): quando, come e perché ha cominciato a dipingere uomini e donne grassi?

«Ho cominciato a farlo per intuizione e fin da ragazzo. A 16 anni ho partecipato alla mia prima mostra, una collettiva, e poi a 19 ho fatto una personale. Ho sempre fatto una pittura volumetrica, ma quando sono arrivato giovanissimo in Italia, a 19 anni, questa mia idea si è sviluppata ammirando le opere di Giotto, Masaccio, Piero della Francesca e altri, tutti artisti volumetrici. Mi sono identificato con loro. E ho sviluppato quella mia intuizione iniziale, di cui prima non conoscevo il perché».

– Negli ultimi anni le è mai capitato di pensare di sorprendere tutti cambiando stile?

«No. Sono convinto di quello che ho fatto e che faccio. E se l’arte è frutto di una convinzione autentica e profonda non c’è motivo di cambiare. I grandi della storia dell’arte hanno sempre mantenuto costante il loro stile: pensi a Botticelli, a Piero della Francesca. Non manca qualche eccezione come Picasso, ma solo il tempo deciderà sull’importanza dello stile di un pittore».

– La sua interiorità come si esprime nella sua pittura?

«Dico sempre che tutto l’insieme della mia opera è un autoritratto che racconta la mia anima. E la mia religione è il lavoro».

– Su che cosa le piacerebbe che i visitatori delle sue mostre si soffermassero?

«Comincerei dall’estetica. Nel caso della Via Crucis, vorrei che la gente si soffermasse sulla nuova rappresentazione di una verità storica, cioè quello che vorrebbe essere un respiro diverso, qualcosa che si vede per la prima volta. Nell’arte, anche nei secoli antichi, spesso si è aggiunto qualcosa di contemporaneo a un soggetto che ha una diversa collocazione storica. Ho provato a prendermi qualche licenza poetica sorprendente, come i blue jeans o le divise militari o i grattacieli. Spero che i visitatori trovino una nuova bellezza e una nuova freschezza».

– A proposito della svolta di Abu Ghraib con i suoi dipinti del 2005, pensa che il mondo stia facendo male a se stesso? I recenti attentati come colpiscono i suoi pennelli?

«Non credo che l’artista debba registrare tutto quello che avviene nell’attualità. A meno che non ci sia una situazione così scandalosa che colpisce tanto da costringere quasi a intervenire con la pittura. Le vicende di Abu Ghraib hanno provocato in me una grande furia. Come, gli Stati Uniti, i paladini dei diritti umani, torturano i prigionieri iracheni: come è possibile? È una mostruosità, l’ho vissuta come un’aggressione alla mia moralità. Non so neppure io quanti quadri ho dipinto su questo argomento e poi li ho regalati tutti perché circolassero liberamente e il più possibile».

– In vari dipinti della Via Crucis, come ha già detto, c’è un’evidente attualizzazione del tema religioso: secondo lei ogni uomo può trovarsi protagonista di una Via Crucis? O no? E perché?

«Sì, oggi c’è un’esigenza religiosa che si fa largo un po’ in tutto il mondo. Ma sono preoccupato da questo confronto così radicale fra i musulmani e i cristiani. Vedo un’intransigenza che può portare solo a situazioni sempre più gravi».

– Lei ha dipinto da non credente. Alla fine della Via Crucis è cambiato in qualche maniera il suo rapporto con Dio o con la trascendenza in generale?

«Più che non credente mi definirei non praticante o forse, meglio, agnostico. Io ho voluto raccontare il dramma di un uomo. Ma è anche vero che nel penultimo quadro, “Sepoltura di Cristo”, ho inserito un angelo. Ho sentito il bisogno di indicare la divinità di Gesù».

– Adesso a che cosa sta lavorando?

«Faccio nature morte o personaggi. Non ho una nuova serie, come è stata questa Via Crucis o quella sul circo o anche Abu Ghraib. Spero che mi arrivi una nuova ispirazione».

– Che cosa ha avuto sempre voglia di fare (nell’arte) e poi non ha mai fatto?

«Sono soddisfatto. Nell’arte ho fatto tutto quello che ho voluto fare, ho avuto tante mostre e tanti riconoscimenti. Ho 83 anni e ancora mi piace lavorare. Ecco, mi auguro di avere ancora buona salute per continuare a dipingere».

– Quando incontra un giovane pittore pieno di talento, che cosa gli consiglia?

«Non è facile. I giovani non vogliono più utilizzare i materiali che io amo (per esempio, la trementina). Hanno idee diverse sulla pittura. Io dico: studiate molto la storia dell’arte ma non sembrano davvero interessati. Non guardano Masaccio e, se lo guardano, non lo capiscono. Oggi non si fa più vera pittura, che consigli posso dare?».

– Lei vive spesso in Italia, a Pietrasanta. Che cosa le piace del nostro Paese? Conosce anche la Sicilia?

«Sì, ogni estate trascorro due mesi a Pietrasanta, in Toscana, dove mi trovo benissimo. Gente affabile e zona bellissima, piena di monumenti e di musei da vedere e rivedere. Anche in Sicilia sono stato più volte. L’ho girata in auto e, l’anno scorso, in barca. È bellissima».

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