di Anna Mallamo
Che le canzoni siano macchine del tempo lo sapevamo. È quella specie di miracolo per cui su certe note cantano tutti, ma proprio tutti, senza distinzione di età, provenienza, gusti. Ma sabato sera, all’arena Vittorio Emanuele di Portorosa, a Furnari, è stato chiarissimo, ascoltando Renzo Arbore e la sua prodigiosa Orchestra Italiana, che le canzoni possono essere anche formidabili giacimenti culturali, a loro modo monumenti, ma vivi e presenti, pronti sempre a restituire alle nostre vite il loro carico di emozione, di vitalità, di magnifica energia. Le canzoni della tradizione, le canzoni-canzoni scritte magari mezzo secolo fa ma ancora bellissime e “vere”. Le canzoni di quelli che Arbore, in scena, chiama “Maestri” e le cui immagini scorrono sullo schermo alle sue spalle: da Murolo a Modugno, passando per Natalino Otto.
«Maestri», dice quel formidabile maestro che però non ha perso mai l’aria scanzonata da studente, men che meno a 78 anni, con la camicia hawaiana e l’energia d’un ragazzo che prende in giro pure la vecchiaia: in scena racconta il “suo” rapporto con l’età, infilando una serie di battute esilaranti (Amnesy International e una tirata sulla mania di ripetere le cose... ripetuta all’infinito) e sfottendo – ma alla sua maniera sempre amabile, ironica e fine – amici «più anziani».
«Maestri», dice Renzo Arbore, e suona (con la chitarra, il clarinetto, le tastiere) con scanzonata reverenza classici formidabili come “Reginella”, mostrando – grazie anche al supporto dell’Orchestra, i cui membri sono presentati uno per uno, e ciascuno ha il suo assolo, il suo momento, la sua ribalta tutta intera, visto che sono tutti bravissimi e non meno divertenti del loro mattatore – che le canzoni sono quelle di sempre ma sempre con qualcosa di più: “Maruzzella” jam e “Chella là” country western. E dentro le canzoni piove di tutto: sonorità arabe, bossa nova, swing. Ritmi afro, finto reggae, persino un “rap napoletano”.
Perché l’Orchestra Italiana fa questo: porta la nostra migliore musica nel mondo (e all’inizio del concerto scorrono le immagini degli spettacoli fatti ovunque, da Pechino a New York), ma fa anche entrare il mondo intero nella nostra musica. E ci dimostra che la musica è scambio, condivisione, accoglienza. Quella che – alla fine, tra i tantissimi bis accolti in un delirio d’applausi dal pubblico – Arbore riconosce ai siciliani e ai meridionali, «che in questo momento così drammatico accolgono i migranti e dimostrano tutto quello che valgono, alla faccia di chi li vuole male».
E sì, le canzoni possono essere memoria condivisa, macchine del tempo e meravigliose macchine per produrre quella cosa che Arbore, il magnifico ragazzo di 78 anni, nomina per ultima, prima di lasciare il palco: la felicità.