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Dal mio microcosmo
al “mondo grande”

di Domenico Nunnari

Carmine Abate nel nuovo romanzo “La felicità dell’attesa”, da oggi in libreria (Mondadori), conduce il lettore come per magia in un mondo di umanità che fonde l’esperienza dolorosa del partire con gioie desideri successi ed esperienze di vita straordinarie. È come se lo scrittore in questo nuovo libro avesse messo insieme tutta la potenza e l’incanto narrativo delle precedenti narrazioni, convogliando ogni energia di scrittura e di espressione in un’unica storia. Dopo la vittoria al Campiello, con “La collina del vento”, e il successivo romanzo breve “Il bacio del pane”, arriva con “La felicità dell’attesa” una bella prova d’orchestra, perfettamente riuscita.

Il romanzo è una narrazione corale in cui si cambia più volte registro, come nelle pièce teatrali, che catturano il pubblico con la qualità del testo, sorprese, invenzioni, ritmo e linguaggio. Il racconto gira, come quasi in tutti i libri di Abate, intorno al tema, molto meridionale e mediterraneo, delle partenze e dei ritorni. Questa volta, però, il romanzo è storia non solo d’emigrazione, ma anche di vita, gioie, lutti, prepotenze, amori e vendette d’un campionario d’umanità che è mescolanza di razze, tradizioni e culture che si sperdono per il mondo, partendo da Hora. La mitica Hora degli altri romanzi, l’arbëresh Carfizzi, nel Crotonese.

Si raccontano quattro generazioni d’una famiglia calabro-arbëresh lungo l’arco d’un secolo e nei luoghi sparsi di tre continenti. Ancora s’impone la lingua miscuglio dello scrittore di Carfizzi: un originale impasto linguistico che caratterizza sempre più la sua prosa, donandogli una potenza espressiva che esalta la solare narrazione.

Come uscite dalla visione di un grande affresco, si materializzano, per fare quattro passi nella narrazione, due figure mitiche degli States: Andy Varipapa, un ragazzo partito nel 1903 da Carfizzi e diventato campione mondiale di bowling, e la ragazza Norma Jean, non ancora Marilyn Monroe, la donna che fa sognare ancor oggi platee sterminate di ammiratori. Sono felici irruzioni che raccolgono in pieno quella sfida in cui si lanciano i grandi romanzieri quando decidono di raccontare il mondo partendo da microcosmi emarginati e apparentemente distaccati dalle grandi correnti della vita.

Abate, questo nuovo romanzo in cui Hora è sempre punto centrale è una sfida narrativa che pare dare ragione a Tolstoj, quando dice che se descrivi bene il tuo villaggio parlerai al mondo intero, o a Corrado Alvaro per il quale senza questi microcosmi del mondo mediterraneo e meridionale, apparentemente distaccati dalla vita, la letteratura perderebbe la sua fonte d’ispirazione...

«Condivido pienamente, tant’è che anche in questo nuovo romanzo il mio mondo è centrale non solo perché lo conosco meglio, ma perché fin dal mio primo libro ho intuito che nel microcosmo si rispecchia il macrocosmo. In questo modo tocchi con mano i problemi del “mondo grande”, della vita, e inoltre puoi preservare la tua autenticità: crei, sì, inventi, ma quel che scrivi non ti suona come moneta falsa, al contrario diventa universale. E pagina dopo pagina ti accorgi che pure in un piccolo paese come Hora, il microcosmo che ho narrato anche in altri miei romanzi, germogliano i grandi temi della letteratura: l’amore, il mistero, la morte, la partenza, il ritorno, l’identità, la memoria, il dolore e la felicità… Temi che ritrovo ogni volta pure nelle minuscole Hore che rinascono nel “mondo grande”. Anche questo m’interessa molto: il confronto e a volte lo scontro tra il paese d’origine e le terre di andata, l’immersione in luoghi pieni di storie straordinarie, che mi piace raccontare attraverso gli sguardi di chi viene da fuori. Non a caso tra i personaggi cui sono più legato c’è Shirley, moglie americana di Carmine Leto, che decide di restare a Hora anche dopo la morte del marito».

Con le storie che racconta in questo nuovo romanzo, sembra di riscoprire quella religione del vivere primitiva e potente che ha dato senso alla vita di tante generazioni che hanno lottato per uscire dalla schiavitù della povertà e poi nella vita sono entrate, con orgoglio e dignità, a pieno titolo.

«Sì, è vero. La “felicità” del titolo nasce da quella che lei chiama “religione del vivere”, malgrado tutto, senza perdere fiducia nel futuro, anzi nel presente del futuro che è l’attesa, come direbbe Sant’Agostino citato in epigrafe. Le confesso che per raccontare il nostro presente sono partito proprio dall’orgoglio e dalla dignità che ho colto nello sguardo di nonno Carmine in una foto scattata un secolo fa a New York. L’orgoglio e la dignità di intere generazioni che non si sono mai arrese ed è questa l’eredità più preziosa che hanno lasciato alle generazioni successive. Pur di sfuggire ai signorotti locali, alla violenza, alla fame, alla disoccupazione – come succede purtroppo ancora oggi, soprattutto a certe latitudini – la gente emigrava per dare un avvenire migliore ai figli. È successo a mio nonno, a mio padre, a me, che pure avevo una laurea nella valigia. Però, dopo un percorso lungo di sofferenze e discriminazioni, di intere famiglie che si disgregano e paesi che si svuotano, come racconto nel mio libro, l’emigrazione può diventare una ricchezza, almeno per i singoli più che per la terra d’origine. Io la chiamo “vivere per addizione”, cioè vivere tra più culture, in più mondi, con più lingue, più sguardi. In questo romanzo si raccontano anche queste vite per addizione, come quella della giovanissima Lucy che cerca di prendere il meglio dall’America, dove è nata, e da Hora, dove è tornata a vivere con i nonni».

Nel racconto s’incrociano due miti americani dello sport e del cinema, due leggende che creano una curiosità, un’attesa febbrile che cattura il lettore. Come sono entrati nel romanzo questi due personaggi?

«Sono entrati di prepotenza dopo poche pagine. A dire il vero, all’inizio volevo raccontare solo una lunga, definitiva saga di emigrazione, partendo da nonno Carmine che è davvero emigrato nella “Merica Bona”. Sono stato due volte negli Stati Uniti sulle sue tracce e già dal primo viaggio mi sono appassionato alla vita di un personaggio grandioso, Andy Varipapa, di cui sapevo pochissimo: un ragazzino del mio paese che è partito all’età di dodici anni ed è diventato il più grande giocatore di bowling del mondo. Ho parlato con persone che lo hanno conosciuto, ho visitato le case in cui ha abitato, ho ricostruito la vita dei “mericani” del mio paese. Grazie a Andy Varipapa, che è stato tante volte a Hollywood per i suoi tornei e per girare film-documentari sul bowling, una sera il giovane Jon Leto conosce una ragazza luminosa, con un neo sulla guancia, e se ne innamora. Lei è Norma Jean, la futura Marilyn Monroe. Pure io, come Jon Leto, ne sono rimasto folgorato. Anche a me interessava Norma, questa ragazza inquieta e ambiziosa, sensuale e senza un pizzico di volgarità, che in comune con Jon aveva un dolore profondo perché era cresciuta senza padre e, oltre a un’attrazione a pelle, sarà proprio il dolore di questa assenza ad unirli. E unirà tutti i personaggi, compreso Andy Varipapa e il narratore».

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