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In quel giardino dello Stretto torna a fiorire la bella stagione

In quel giardino dello Stretto torna a fiorire la bella stagione

L’Eden è un giardino straordinario che può trovarsi in una villa in riva al mare in una città meridionale. Un paradiso terrestre che è diventato un paradiso perduto per un pensieroso architetto cinquantenne Andrea. Il peccato originale che l’ha allontanato da quel luogo felice è stato il mancato rispetto per la natura, ma soprattutto il mancato rispetto per l’amore. Quello di Andrea è un “cuore in inverno” (Claude Sautet docet), proprio la stagione da cui parte il film con cui Francesco Calogero torna felicemente al lungometraggio dopo 15 anni.

“Seconda primavera” si dipana come una delicata sinfonia per immagini nell’arco di sei stagioni, sulla traccia della sceneggiatura dello stesso Calogero, densa di raffinati rimandi ed eleganti suggestioni che riassumono il vasto orizzonte culturale dell’autore. Tanti omaggi vengono espressamente citati: il “Sogno” di Shakespeare, le viole di Napoleone, “La donna che visse due volte” di Hitchcock, “Racconto di primavera” di Rohmer, la pittura di Magritte, le arie liriche di Cilea e Bellini, le canzoni di Trenet, Endrigo, De André. Altri tributi rimangono appena accennati (da Céline a Eliot) e vengono colti a seconda del gusto di ogni spettatore. Ma sempre con grande leggerezza.

Calogero, infatti, ha mantenuto intatta (anzi ha portato a maturazione) la “gentilezza del tocco” degli esordi di quasi 30 anni fa e propone, spesso giocando con la “magia” del numero 4 (le stagioni, gli elementi, la teoria degli umori, le condizioni per la felicità), una tessitura narrativa leggibile a più livelli. A partire da quello, per nulla intellettuale, di un intreccio amoroso con toni da commedia. Galeotta fu, infatti, una festa di Capodanno, che nel corso del film viene raccontata in diversi flashback da ciascuno dei quattro protagonisti in una sorta di “Rashomon” delle coincidenze esistenziali. Punti di vista che diventano “punti di vita”.

Il solitario Andrea si è convinto ad andare a quella festa, spinto dall’irruenza del giovane Riccardo, che ha da poco casualmente conosciuto, estroverso e con velleità da romanziere (si sente una sorta di Philip K. Dick), sposato senza entusiasmo con una anestesista più grande lui. E a quella festa c’è la splendida Hikma, di origini tunisine. Riccardo s’infatua superficialmente. Andrea invece rivede in lei, per molti versi, sua moglie, morta anni prima proprio in quella sua villa col magnifico giardino, trascinata in mare da un’alluvione. E purtroppo anche in gravidanza avanzata. Si spiega così la persistente tristezza interiore di Andrea, congiunta al senso di colpa di non essere presente quando è accaduta la tragedia in cui ha perso la moglie con la figlia nascitura.

La paternità, voluta o non voluta o casuale, è un altro tema forte del film, sottolineato da un’efficace scena di un autentico “parto dolce” in acqua. Ma, come si diceva, ogni spettatore potrà trovare una propria congenialità nel corso dello sviluppo della storia che porterà – come annunciato dal titolo – alla “rifioritura” di Andrea.

Va tuttavia sottolineato che in una struttura così intima e colta fa ampiamente irruzione, in maniera pertinente, anche l’attualità. In questa città mediterranea (il film è interamente girato a Messina, mai espressamente nominata ma riconoscibile), infatti, la bellezza innata è minacciata da scempi edilizi, caos urbanistico, progetti di sopraelevazioni e da un incombente “ponte”, più volte evocato anche in maniera metaforica. Si parla pure di crisi economica, con negozi che chiudono e scarse possibilità di lavoro, per lo più in mansioni umili. Ed emerge un preciso riferimento all’Islam (il fratello maggiore di Hikma è musulmano osservante), con una encomiabile visione di un’integrata convivenza pacifica tra culture diverse.

Oltre che con i dialoghi, Calogero si esprime soprattutto con le immagini. E la sua regia è avvolgente e melodiosa, pienamente assecondata dai suoi collaboratori tecnici, a partire dal direttore della fotografia Giulio Pietromarchi e dal montatore Mirco Garrone, fino al musicista Sandro Di Stefano, lo scenografo Antonio Virgilio e la costumista Antonella Zito.

Il piacere del dettaglio si armonizza con la tecnica del piano sequenza, che ha consentito anche la “miracolosa” rapidità di esecuzione (appena 23 giorni di riprese) con un lodevole risultato qualitativo, che ripaga la fatica di portare avanti una piccola produzione indipendente (“Polittico”). Impresa nella quale Calogero ha al suo fianco Mia Arfuso, nel lavoro come nella vita.

Eccellente direttore degli attori, Calogero ha trovato un nutrito cast che dà compattezza al film. Fin dai ruoli minori, quasi tutti affidati a numerosi interpreti messinesi, a quelli più di “colore” in cui si armonizzano bene attori di diversa estrazione, dai più giovani Monia Alfieri e Livio Bisignano, agli esperti Antonio Alveario (il collega dell’architetto), Hedy Krissane (il fratello di Hikma), la coppia con prole formata dallo spiritoso Gianluca Cesale e dalla briosa Tiziana Lodato, l’incisiva Anita Kravos (la “collerica” anestesista). Fino all’affettuosa partecipazione di Nino Frassica, emblema della bonaria saggezza.

Encomiabile Angelo Campolo (il “sanguigno” Riccardo), molto abile e carismatico nel dare fisicità e spessore a un personaggio “negativo”, fino a trasformarlo in una “simpatica canaglia” che potrebbe aprire ulteriori chiavi interpretative. Smagliante Desirée Noferini (la “malinconica” Hikma), che unisce la rara bellezza (sua madre è etiope) all’abnegazione interpretativa che la porta, pur essendo fiorentina, a sfoderare un impeccabile accento peloritano. Profondo Claudio Botosso (il “flemmatico” Andrea), chiamato con l’intensità dei primi piani a dare un senso compiuto alla rinascita di un uomo attraverso il rinnovato piacere per il proprio lavoro e la riscoperta della delicatezza dei sentimenti.

Nel finale il regista Calogero riunisce tutti i personaggi a teatro e – complice la purezza dell’aria della “Sonnambula” belliniana “Ah, non credea mirarti”, magistralmente interpretata dal soprano Paola Cigna – giostra come un demiurgo tra la realtà e l’ineffabilità dell’amore.

Contando anche il super8 “La caviglia di Amelia”, sono sei i lungometraggi di Calogero; e sono sei le stagioni di questo film che per lui rappresenta davvero una rinnovata primavera creativa.

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