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Quanti don Lorenzo Milani ci vorrebbero, qui e oggi...

Quanti don Lorenzo Milani ci vorrebbero, qui e oggi...

Dispiegare l’umanità è stata la più grande maestria di don Lorenzo Milani – di cui il 26 giugno ricorrono i 50 anni dalla morte – che preferì abitare, nel tempo umano assegnatogli, la “casa” scomoda dell’esistenza scartando gli agi di una vita tranquilla che i natali illustri potevano garantirgli. Era nato a Firenze da Albano e da Alice Weiss, una coppia d’intellettuali laici e anticonformisti: lui, chimico e con la passione per la letteratura, era figlio di Luigi Adriano Milani, archeologo e numismatico, e di Laura Comparetti, figlia del senatore e raffinato filologo Domenico e della pedagogista Elena Raffalovich (che aveva fondato in Italia i giardini d’infanzia fröbeliani). E il ramo materno di Lorenzo era altrettanto altolocato, giacché la madre, proveniente da una famiglia di ebrei boemi trasferitisi a Trieste, aveva respirato sin da piccola la cultura mitteleuropea; era stata allieva di James Joyce, conosceva Italo Svevo ed era cugina di Edoardo Weiss che la avvicinò agli studi di Freud. A Firenze, i Milani (avrebbero acquisito il cognome Comparetti dopo la morte del grande nonno Domenico), che abitavano una dimora ricca di libri e di opere d’arte, frequentavano gli ambienti intellettuali della città (tra gli altri, le famiglie Pavolini, Olschki, Spadolini) e anche quando dovettero trasferirsi a Milano per difficoltà economiche mantennero uno stile di vita culturalmente elevato; e dunque il giovane Lorenzo ricevette un’educazione adeguata, prima presso i padri barnabiti e poi presso il prestigioso liceo classico Berchet.
Intanto si andava formando la conoscenza del mondo da parte del ragazzo che, mentre cresceva il suo spirito di indipendenza, coltivava l’edificazione di sé attraverso la provocazione. Non certo quell’atteggiamento vacuo divenuto oggi un modo autoreferenziale di celebrare se stessi, ma piuttosto il metodo “socratico” di svelare “l’inganno” e di non asservirsi alle mode, soprattutto quelle travestite da ideologie. Legato ai cari compagni Oreste Del Buono, Saverio Tutino, Enrico Baj, iniziava la sua ribellione ai “padri”, famiglia e istituzioni, allontanandosi dall’orizzonte d’attesa familiare che lo voleva laureato.
Attratto dall’arte s’iscrisse anche all’Accademia di Brera dopo essere stato allievo, a Firenze, del pittore Hans Joachim Staude che lo sensibilizzò ad una lettura “filologica” dei fatti umani. Nel momento in cui cadeva il fascismo, il modo di essere “contro” di Lorenzo, maturatosi nella temperie fiorentina di La Pira (e preceduto dal “battesimo” del ’33), fiorì nella decisione di stare con Cristo e nella conseguente “conversione” al cattolicesimo. Un bel risultato “manzoniano” di autoeducazione civica intesa come capacità di scegliere, di rifiutare e di preferire, con quel «passare all’accampamento nemico non come disertore ma come esploratore» (lo diceva Seneca in una delle sue lettere a Lucilio) mentre tirava calci persino contro il conformismo anticonformista della educazione familiare.
Seguì l’ingresso in seminario nel ’43, mentre persisteva la ripulsa verso tutto ciò che si conformava ideologicamente: inevitabile, come scriverà in “Esperienze pastorali”, l’insofferenza verso la normativa rituale, verso la gerarchia e la disciplina del politicamente corretto della fede, cui vogliono ridurla proprio i benpensanti privi di fede. «Può darsi che la croce che si ha dentro sia più austera e più grande e più umiliante che quella che s’è dimenticato di tracciare per l’aria»: scriveva così, quando venne il momento del suo “confino” a Barbiana. Avverso al suicidio dell’indifferenza, diffidente verso i preti distratti e cattivi benché esecutori attenti di quel segno in aria (appunto), che è la croce, don Milani, nella parrocchia in via di dismissione nel Mugello, alle pendici del Monte Giovi, dove giunse nel dicembre del 1954, sperimentava la democrazia come esercizio di umiltà sociale: accettare che tutti siamo necessari, che l’appartenenza non vuol dire il possesso di diritti per alcuni (quali che siano le condizioni esistenziali) e la privazione per altri, volere con forza che i “fuori posto”, “gli esclusi in carne e ossa”, abitanti di ghetti involontari, diventassero i protagonisti di un progetto “religioso” e culturale, trasmettendo ad essi educazione e saperi. Ma anche nell’insegnamento libero e “alto” mentre si rivolgeva al “basso”, don Milani portava la sua inquietudine (perché accogliere Cristo significa questo); nella lezione che papa Francesco ha pronunciato e consegnato alla stampa di recente, il prete di Barbiana – autore di uno dei libri più rivoluzionari e importanti del nostro tempo, “Lettera a una professoressa” – appare come colui che, destinato all’ “ospedale da campo” ai cui feriti/emarginati deve provvedere, conserva nel cuore del cuore l’inquietudine spirituale (la medesima di Agostino di Ippona e di tanti altri insieme a lui) per vivere umanamente.
La vita diventa nostra se siamo capaci di trasformarne la durata in vita piena e don Lorenzo Milani, morto a quarantaquattro anni, così fece: s’inventò la vita, la valorizzò, consegnandola agli altri e mettendo in pratica il paradosso stoico (e di paradossi se ne intendeva) che poco importa quanto la vita duri, molto importa invece che sia “piena”. Essere umani significa ricercare di continuo la formula della pienezza della vita, anche scavando la vulnerabilità e l’incertezza della condizione umana, anche patendo le ombre della fragilità e la tirannide delle debolezze. Sperimentando su di sé che per essere virtuosi non basta rinunciare al desiderio ma governarlo, egli poté essere, nel supermercato della vita, un uomo libero, condizione imprescindibile per poter scegliere.
Don Lorenzo Milani ha dato alla Chiesa più di quanto la Chiesa gli abbia mai dato; il prete che pronunciò tanti no, che sapeva mescidare le dolcezze e le asperità del linguaggio, seppe anche abbassare il capo, abbandonarsi alla misericordia – come ha detto papa Francesco –, benché conscio che l’obbedienza non fosse sempre una virtù. Era certamente figlio del suo tempo, ma ha saputo essere “uomo del futuro”, così come viene tratteggiato nella singolare biografia (“L’uomo del futuro”) di Eraldo Affinati.
Erano tante le Barbiane in quell’Italia rurale e preindustriale del dopoguerra, ma continuano a rimanere numerose in tante parti della Terra, nei ghetti dei campi profughi, nei paesi impoveriti e devastati dalle guerre, negli “ospedali da campo” di tante realtà quotidiane. In tutte dovrebbero starci dei don Lorenzo Milani.

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