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Quei doni sobri dell'antica Befana

Le nonne d'un tempo

Avevo tre o quattro anni; mio padre era in Canada. All’imbrunire la nonna disse alla mamma: vado col bambino alla bottega. Ricordo l’arrivo in piazza, la mano nella sua. Al negozio di generi alimentari, la nonna disse: «Sono venuta a fare la Befana al bambino» e cominciò a scegliere dagli stipi caramelle, confetti, susumelle, torroni. Io la guardavo: sorpreso, curioso e compiaciuto. Scoprire in quel modo che la Befana era lei non fu un trauma, né attenuò le mie attese. Per anni continuai a scrivere letterine alla Befana in cui chiedevo dolci, promettendo di diventare più buono. La cultura e i rapporti sono fatti di finzioni, di teatro e di recite. Perché la Befana ci rendesse felici, i padri erano andati lontano.

La Befana – un po’ strega, un po’ Quaresima, un po’ maga generosa, un po’ nonna amabile – era attesa con un misto di ansia e di speranza. Per i ragazzi della mia generazione non esisteva Babbo Natale, invenzione recente di una tradizione globale dalla cui diffusione, nella versione più americanizzata e consumistica, quei ragazzi divenuti adulti si sarebbero fatti travolgere. La Befana portava doni sobri, frutta secca, qualche biscotto, le prime caramelle. Era uno spauracchio per farci stare buoni: «Quest’anno la Befana ti porta cenere e carbone». «Signor maestro – domandò un giorno un mio compagno che lavorava in campagna col padre – ma è vero che adesso la Befana mi porta cenere e carbone?». «Magari – rispose il maestro – almeno avresti cosa mettere nel tuo “bracereju”». Il piccolo braciere: prima di andare a scuola, mettevamo in un contenitore di latta cenere, pezzi di carbone e qualche brace del camino o del braciere. Sotto il banco, doveva riscaldarci per tutta la mattinata nelle aule fredde e umide. L’aria a volte diventava irrespirabile; per questo si mettevano le bucce di arancia sopra il carbone, per attenuare l’odore delle scarpe di gomma aperte e inzuppate, o dei piedi scalzi e gelati. Notte dell’Epifania gli animali prendevano la parola e potevano dire male dei padroni che li avevano maltrattati e non ben nutriti. Il sogno di un mondo alla rovescia riportava all’età dell’oro, ai miti di Giano e Saturno, al desiderio di cambiamento e di benessere. Un rovesciamento-ribaltamento dell’ordine abituale sociale e l’affermazione di un diverso ordine naturale in cui uomini, animali, natura, cose erano sullo stesso piano e facevano parte di un’unica vicenda cosmica. La mattina della Befana si andava a messa e alla sera si “cantava il presepe”, si baciava il Bambino prima di riporlo. Ricordo il senso di vuoto quando i poveri pastori fatti con la creta, avvolti nei fogli di giornale, venivano rimessi in una scatola di cartone.

Ricordare la Befana della mia infanzia mi permette di far rivivere gli istanti finali di un mondo al crepuscolo; forse, di tenere accese le ultime braci che rivelano un bisogno di calore dato da legami e rapporti veri. A essere scarsi non sono i beni, ma il loro valore simbolico. In questo nostro mondo distratto e obeso, ingordo e preoccupato (il cui altro volto sono milioni di affamati e assetati) resistono e rivivono schegge che, tra passato e presente, tradizione e modernità, ci segnalano la potenza dei limiti e dei margini. Ricordare quei tempi di attesa e sobrietà mi aiuta a capire quanto abbiamo sbagliato a continuare lungo una strada che faceva perdere di vista il punto di partenza. Era davvero obbligatorio passare dalle ristrettezze agli sprechi, dalle scarpe bucate alle cento paia di scarpe inutili? La sensazione è che noi adulti cerchiamo di salvarci l’anima per altre mancanze nei confronti dei figli e che a figli e nipoti tocchi recitare la parte dell’infelicità e dell’insoddisfazione ricevendo regali costosi, mai troppi, mai perfetti.

Ognuno, come diceva Alvaro, è responsabile del proprio tempo e deve fare i conti con quello presente, con le sue e le nostre contraddizioni. Una nuova pedagogia, etica ed ecologia del donare e della convivialità forse sono ancora possibili. Servirebbe un nuovo modello di sviluppo capace di annullare le grandi disuguaglianze; una politica in grado di pensare che beni e risorse non sono illimitati e sono di tutti. Il sogno di nuove forme di rovesciamento dell’attuale insopportabile e suicida ordine del mondo.

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